David Bowie
The Man Who Sold The World
Il noto seduttore David Jones, in arte Bowie, all epoca di questo disco era un ventitreenne già bello che sposato e in procinto di diventare padre; pur tuttavia sceglieva di conciarsi in questo modo in copertina adeguando, ancora non troppo efficacemente, il magnifico suo aspetto androgino alle parimenti notevoli voglie trasgressive, frutto di una personalità irrequieta e ben poco influenzata dalle tipiche inibizioni perbenistico-religiose del suo paese, nonché di buona parte del resto del mondo.
Detto ciò, Bowie è primariamente famoso quale una delle massime personalità della musica inglese contemporanea, nomea concretizzatasi sin dalla prima parte di carriera durante la quale, dopo uninfruttuosa ma in fondo breve gavetta, si può dire non abbia sbagliato un disco. Pure questo è quindi interessante, anche se quasi negletto rispetto agli altri. In altre parole questo suo terzo album, mentre che assolve al ruolo di passaggio fra il dominante folk psichedelico del secondo lavoro Space Oddity e il sostanziale glam rock del quarto Hunky Dory, ne resta anche sensibilmente schiacciato essendo entrambi quei lavori non meno che eccellenti. Ma sarebbe, come si dice, scartar grasso liquidare Luomo che vendette il mondo come opera minore.
Certo che, deconcentrato dalla paternità incombente, Bowie lascia fare anche troppo al bassista e produttore Tony Visconti e al nuovo chitarrista Mick Ronson, mettendo così lopera sui binari di un lavoro di gruppo vero e proprio almeno per quanto riguarda la fase primordiale dei pezzi, ai quali poi applicare la sua benedizione, le sue linee melodiche, i suoi testi e le sue royalties. Così qui e là vi sono parti condotte né più né meno in trio British Blues chitarra, basso e batteria, in libera jam session che neanche i Cream, i Mountain o la James Gang! E nel lungo brano di apertura The Width of a Circle a Ronson sono concessi tre assoli tre uno dietro laltro (il pezzo è comunque molto bello diviso comè in due parti, la prima rockblues con un bel riff discendente di chitarra e la seconda proto-glam, col ritmo a marcetta e i coretti sguaiati del caso).
Ma più ancora che dalla deriva hard blues, il disco è caratterizzato da una diffusa cupezza che lo rende massimamente anticommerciale e impegnativo. Pare che molta della responsabilità sia dovuta al luogo che aveva funto da sala prove al tempo, una spelonca del periodo Edwardiano lugubre anzichenò, ma forse e piuttosto sono i gravissimi problemi di schizofrenia del fratellastro di Bowie, ricoverato in una clinica per pazzi furiosi appena fuori Londra, ad ispirare, oltre ai testi cupi e tormentati, i toni claustrofobici e luso degli strumenti nelle loro estensioni tonali più basse.
La voce del giovane David è già magnifica in All the Madmen, mentre che disserta con un timbro da incubo di tranquillanti, elettroshock, lobotomie e pezzi di coscienza che vengono portati via un po alla volta. Black Country Rock invece ha levanescenza decadente del miglior Marc Bolan, figura molto seguita da Bowie (e da tantissimi musicisti della scena londinese del tempo) prima ancora di diventare famosa. Purtroppo Visconti pecca di megalomania e tiene il suo basso, competente ma tuttaltro che geniale, in eccessiva evidenza nel mix manco fosse Jack Bruce (oltre tutto suona lo stesso suo modello di strumento, ossia il tonitruante Gibson diavoletto dal suono gommoso e invadente) ed anche Ronson è ancora lontano dal futuro, perfetto ruolo da Dottor Sottile, ala John Paul Jones, che si ritaglierà nei tre album successivi, dosando alla perfezione la sua lancinante chitarra e liberando il suo eclettismo addirittura verso arrangiamenti orchestrali da caposcuola.
Trovo in altri termini che il disco sia prodotto male mia opinione beninteso, poi qualcun altro ci troverà invece i migliori germi della futura dark wave o di chissà cosaltro e va bene così, avrebbe perfettamente ragione! Ad esempio la canzone che intitola il disco, la più nota anche grazie alla cover a suo tempo rilasciata da devoti fans del giovane Bowie quali erano i Nirvana, è costituita da un ondeggiante ed ipnotico riff di Ronson a legare insieme strofe parecchio ermetiche e fantasiose e successioni squisitamente Bowiane di accordi, ma è poi assai tarpata delle strane scelte di missaggio, con la batteria tutta compressa a palla in un unico canale stereo come ai bei tempi (obsoleti) di Ringo sui vecchi dischi dei Beatles, per far pure troppo posto a un giro che sta lì a grattare il ritmo nellaltro canale
Claustrofobico, tetro ed oscuro, pesante quanto più poteva esserlo la musica pop e rock allalba degli anni settanta, senza velleità commerciali o quantomeno senza riuscire a mettere ancora a fuoco commercialmente il genio motivico e comunicativo di Bowie, lalbum si infila nel novero dei buoni, ma non capolavori a riguardo dellestesissima discografia del nostro. Va ascoltato tutto dun fiato e nello specifico, avendo la sua precipua atmosfera, il suo suono agli estremi del pop, la sua spiccata uniformità determinata dal valore e dal mood quasi costante di tutte le canzoni, la pretesa di richiedere concentrazione ed esclusività per poter entrare in vibrazione con esso.
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