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R Recensione

7,5/10

David Bowie

The Man Who Sold The World

Il noto seduttore David Jones, in arte Bowie, all’ epoca di questo disco era un ventitreenne già bello che sposato e in procinto di diventare padre; pur tuttavia sceglieva di conciarsi in questo modo in copertina adeguando, ancora non troppo efficacemente, il magnifico suo aspetto androgino alle parimenti notevoli voglie trasgressive, frutto di una personalità irrequieta e ben poco influenzata dalle tipiche inibizioni perbenistico-religiose del suo paese, nonché di buona parte del resto del mondo.

Detto ciò, Bowie è primariamente famoso quale una delle massime personalità della musica inglese contemporanea, nomea concretizzatasi sin dalla prima parte di carriera durante la quale, dopo un’infruttuosa ma in fondo breve gavetta, si può dire non abbia sbagliato un disco. Pure questo è quindi interessante, anche se quasi negletto rispetto agli altri. In altre parole questo suo terzo album, mentre che assolve al ruolo di passaggio fra il dominante folk psichedelico del secondo lavoro “Space Oddity” e il sostanziale glam rock del quarto “Hunky Dory”, ne resta anche sensibilmente schiacciato essendo entrambi quei lavori non meno che eccellenti. Ma sarebbe, come si dice, scartar grasso liquidare “L’uomo che vendette il mondo” come opera minore.

Certo che, deconcentrato dalla paternità incombente, Bowie lascia fare anche troppo al bassista e produttore Tony Visconti e al nuovo chitarrista Mick Ronson, mettendo così l’opera sui binari di un lavoro di gruppo vero e proprio almeno per quanto riguarda la fase primordiale dei pezzi, ai quali poi applicare la sua benedizione, le sue linee melodiche, i suoi testi e… le sue royalties. Così qui e là vi sono parti condotte né più né meno in trio British Blues chitarra, basso e batteria, in libera jam session che neanche i Cream, i Mountain o la James Gang! E nel lungo brano di apertura “The Width of a Circle” a Ronson sono concessi tre assoli tre uno dietro l’altro (il pezzo è comunque molto bello diviso com’è in due parti, la prima rockblues con un bel riff discendente di chitarra e la seconda proto-glam, col ritmo a marcetta e i coretti sguaiati del caso).

Ma più ancora che dalla deriva hard blues, il disco è caratterizzato da una diffusa cupezza che lo rende massimamente anticommerciale e impegnativo. Pare che molta della responsabilità sia dovuta al luogo che aveva funto da sala prove al tempo, una spelonca del periodo Edwardiano lugubre anzichenò, ma forse e piuttosto sono i gravissimi problemi di schizofrenia del fratellastro di Bowie, ricoverato in una clinica per pazzi furiosi appena fuori Londra, ad ispirare, oltre ai testi cupi e tormentati, i toni claustrofobici e l’uso degli strumenti nelle loro estensioni tonali più basse.

La voce del giovane David è già magnifica in “All the Madmen”, mentre che disserta con un timbro da incubo di tranquillanti, elettroshock, lobotomie e pezzi di coscienza che vengono portati via un po’ alla volta. “Black Country Rock” invece ha l’evanescenza decadente del miglior Marc Bolan, figura molto seguita da Bowie (e da tantissimi musicisti della scena londinese del tempo) prima ancora di diventare famosa. Purtroppo Visconti pecca di megalomania e tiene il suo basso, competente ma tutt’altro che geniale, in eccessiva evidenza nel mix manco fosse Jack Bruce (oltre tutto suona lo stesso suo modello di strumento, ossia il tonitruante Gibson “diavoletto” dal suono gommoso e invadente) ed anche Ronson è ancora lontano dal futuro, perfetto ruolo da Dottor Sottile, a’la John Paul Jones, che si ritaglierà nei tre album successivi, dosando alla perfezione la sua lancinante chitarra e liberando il suo eclettismo addirittura verso arrangiamenti orchestrali da caposcuola.

Trovo in altri termini che il disco sia prodotto male… mia opinione beninteso, poi qualcun altro ci troverà invece i migliori germi della futura dark wave o di chissà cos’altro e va bene così, avrebbe perfettamente ragione! Ad esempio la canzone che intitola il disco, la più nota anche grazie alla cover a suo tempo rilasciata da devoti fans del giovane Bowie quali erano i Nirvana, è costituita da un ondeggiante ed ipnotico riff di Ronson a legare insieme strofe parecchio ermetiche e fantasiose e successioni squisitamente Bowiane di accordi, ma è poi assai tarpata delle strane scelte di missaggio, con la batteria tutta compressa a palla in un unico canale stereo come ai bei tempi (obsoleti) di Ringo sui vecchi dischi dei Beatles, per far pure troppo posto a un giro che sta lì a grattare il ritmo nell’altro canale…

Claustrofobico, tetro ed oscuro, “pesante” quanto più poteva esserlo la musica pop e rock all’alba degli anni settanta, senza velleità commerciali o quantomeno senza riuscire a mettere ancora a fuoco commercialmente  il genio motivico e comunicativo di Bowie, l’album si infila nel novero dei “buoni, ma non capolavori” a riguardo dell’estesissima discografia del nostro. Va ascoltato tutto d’un fiato e nello specifico, avendo la sua precipua atmosfera, il suo suono agli estremi del pop, la sua spiccata uniformità determinata dal valore e dal mood quasi costante di tutte le canzoni, la pretesa di richiedere concentrazione ed esclusività per poter entrare in “vibrazione” con esso.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 15 voti.

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benoitbrisefer (ha votato 7 questo disco) alle 0:00 del 8 settembre 2015 ha scritto:

"l’album si infila nel novero dei “buoni, ma non capolavori”. Nella lapidaria sentenza di fine rece (ottima peraltro!) c'è il senso di questo disco, destinato, ahilui, a precedere i due capolavori Hunky Dory e Ziggy Stardust. Le sorti dell'album forse sarebbero state diverse se avesse contenuto una canzone capace di divenire simbolo del Duca Bianco come ad esempio una Space Oddity, finita invece nel primo prescindibilissimo lp del nostro.

Dr.Paul (ha votato 7,5 questo disco) alle 10:10 del 8 settembre 2015 ha scritto:

oddio addirittura prescindibilissimo space oddity? no dai! questo disco è buono, la sua fissa per i Cream...le ossessioni per la malattia del fratello (anche lui fan dei Cream), Nietzsche, l'erba.....hanno il loro perchè in quel preciso momento! la produzione e il missaggio a me non disturbano, anzi le trovo soddisfacenti!

Paolo Nuzzi (ha votato 8 questo disco) alle 10:41 del 8 settembre 2015 ha scritto:

Beh ammetterai che tra la title track e le restanti canzoni (seppur buon esercizio ancora dalle parti di Dylan e del Greenwich Village) ci sia un discreto abisso, questo è innegabile. Sono d'accordo con la bontà del disco in questione, anche se ancora un ibrido folk-hard blues, un buonissimo disco di transizione per i capolavori a venire. Ottima recensione.

Dr.Paul (ha votato 7,5 questo disco) alle 11:13 del 8 settembre 2015 ha scritto:

non ho capito, dici a me? differenze tra titletrack e il resto?

Paolo Nuzzi (ha votato 8 questo disco) alle 11:50 del 8 settembre 2015 ha scritto:

Parlavo di "Space Oddity", sì e dicevo a te, fratello Bowiano Non trovi ci sia un abisso tra essa e: Unwashed and Somewhat Slightly Dazed, (Don’t Sit Down), Letter to Hermione, Cygnet Committee, Janine, An Occasional Dream

,The Wild Eyed Boy From Freecloud, God Knows I’m Good, Memory of a Free Festival?

Dr.Paul (ha votato 7,5 questo disco) alle 11:58 del 8 settembre 2015 ha scritto:

ah pardon ora capisco, ti riferivi a space oddity. bè io credo che Unwashed e Wild eyed boy from freecloud siano dei pezzi ottimi e che potrebbero tranquillamente insidiare qualcosina di minore in questo disco. Cygnet Committee forse può annoiare per l'eccessiva durata ma mette in mostra la tecnica compositiva tutt'altro che sempliciotta del biondino.... un disco veramente inutile è il primo del '67, no?

Paolo Nuzzi (ha votato 8 questo disco) alle 12:05 del 8 settembre 2015 ha scritto:

Beh sì, sostanzialmente d'accordo, specie con il disco omonimo, davvero prescindibile.