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R Recensione

7/10

Colour Haze

In Her Garden

Tradiscono tutti: giovani leve, vecchie glorie, stelle stagionate. A non tradire mai sono gli appassionati. Di più: gli appassionati che si lasciano ancora sorprendere ogni giorno. Tanta e tale elegia parrà fuori luogo quando intessuta addosso ai Colour Haze di Stefan Koglek, ma se esiste un disco recente capace di riconciliare lo stremato ascoltatore con l’hard psych, di farlo innamorare nuovamente della chitarra e della sua centralità, questo è precisamente “In Her Garden” (un modo per rendere omaggio in anticipo agli Iron Butterfly?). Potenza di fuoco e fantasia creativa, abilità tecnica ed eterogeneità stilistica: in un mare magnum in continua espansione di uscite mediocri e superflue, la dodicesima (!) uscita lunga del power trio di München in poco più di vent’anni testimonia uno stato di forma realmente impressionante.

I quattro minuti di “Arbores”, tra le dilatazioni blues dei Quicksilver Messenger Service e le progressioni armoniche della Allman Brothers Band, segnano l’episodio più breve di un concept progettato (anche graficamente) a mo’ di erbario. L’insolita similitudine è particolarmente felice, perché la band si riscopre generosissima non solo nelle durate (si tocca l’ora e un quarto complessiva) ma anche nel ventaglio di soluzioni sonore sfoderate in ogni singolo brano, caratterizzato – proprio come se fosse un organismo vegetale – da timbri e colori del tutto peculiari. Il ruvido stoner hendrixiano di “Black Lily” confluisce nei tumultuosi ed assolati grandangoli West Coast di “Magnolia” (c’è un che di prog nelle perfette rotondità dei suoni) proprio come l’infuocato fraseggiare hard-kraut di “Lavatera” (introdotto dall’intermezzo di “Sdg I”, una banda felliniana di ottoni) viene stemperato dall’esuberante piena flower power di “Islands” (con un inciso cantato conclusivo che, pur se sommerso dalle evoluzioni della chitarra di Koglek, sa farsi apprezzare). La seconda metà, in quanto ad idee messe in campo, è persino migliore della prima: attorno all’inarrestabile crescendo à la Motorpsycho di “Labyrinthe” si sviluppa un bell’arrangiamento di Jan Faszbender per clarinetto basso, tuba e trombone (suonano, rispettivamente, Ulrich Wangenheim, Jutta Keeß e Mathias Götz), mentre “Lotus” è un’intensa sonatina californiana benedetta da uno svolazzante volteggiare d’archi (i violini di Blerim Hoxa e Markus Muench, la viola di Evi Keglmaier e il violoncello di Jost Hecker: ancora Motorpsycho, questa volta indirizzo “Let Them Eat Cake”). È il preludio al gran finale, con il sitar di “Sdg III” ad annunciare il piano Rhodes impiastricciato di fuzz di “Skydancer” e l’assalto sonico della jam stoner di “Skydance” (con sezioni di intarsi elettro-acustici di grande raffinatezza).

Per chi ancora non conoscesse la produzione della band, “In Her Garden” è un’introduzione di tutto rispetto (vagamente inaspettata, va detto), la portata introduttiva verso i capolavori “Ewige Blumenkraft” (2001) e “Los Sounds De Krauts” (2003). Il miglior disco dell’ultimo decennio dei Colour Haze e l’esempio evidente di come si possa ancora fare “musica con le chitarre” senza smarrire un’oncia di capacità comunicativa.

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Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 1 voto.
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