Colour Haze
In Her Garden
Tradiscono tutti: giovani leve, vecchie glorie, stelle stagionate. A non tradire mai sono gli appassionati. Di più: gli appassionati che si lasciano ancora sorprendere ogni giorno. Tanta e tale elegia parrà fuori luogo quando intessuta addosso ai Colour Haze di Stefan Koglek, ma se esiste un disco recente capace di riconciliare lo stremato ascoltatore con lhard psych, di farlo innamorare nuovamente della chitarra e della sua centralità, questo è precisamente In Her Garden (un modo per rendere omaggio in anticipo agli Iron Butterfly?). Potenza di fuoco e fantasia creativa, abilità tecnica ed eterogeneità stilistica: in un mare magnum in continua espansione di uscite mediocri e superflue, la dodicesima (!) uscita lunga del power trio di München in poco più di ventanni testimonia uno stato di forma realmente impressionante.
I quattro minuti di Arbores, tra le dilatazioni blues dei Quicksilver Messenger Service e le progressioni armoniche della Allman Brothers Band, segnano lepisodio più breve di un concept progettato (anche graficamente) a mo di erbario. Linsolita similitudine è particolarmente felice, perché la band si riscopre generosissima non solo nelle durate (si tocca lora e un quarto complessiva) ma anche nel ventaglio di soluzioni sonore sfoderate in ogni singolo brano, caratterizzato proprio come se fosse un organismo vegetale da timbri e colori del tutto peculiari. Il ruvido stoner hendrixiano di Black Lily confluisce nei tumultuosi ed assolati grandangoli West Coast di Magnolia (cè un che di prog nelle perfette rotondità dei suoni) proprio come linfuocato fraseggiare hard-kraut di Lavatera (introdotto dallintermezzo di Sdg I, una banda felliniana di ottoni) viene stemperato dallesuberante piena flower power di Islands (con un inciso cantato conclusivo che, pur se sommerso dalle evoluzioni della chitarra di Koglek, sa farsi apprezzare). La seconda metà, in quanto ad idee messe in campo, è persino migliore della prima: attorno allinarrestabile crescendo à la Motorpsycho di Labyrinthe si sviluppa un bellarrangiamento di Jan Faszbender per clarinetto basso, tuba e trombone (suonano, rispettivamente, Ulrich Wangenheim, Jutta Keeß e Mathias Götz), mentre Lotus è unintensa sonatina californiana benedetta da uno svolazzante volteggiare darchi (i violini di Blerim Hoxa e Markus Muench, la viola di Evi Keglmaier e il violoncello di Jost Hecker: ancora Motorpsycho, questa volta indirizzo Let Them Eat Cake). È il preludio al gran finale, con il sitar di Sdg III ad annunciare il piano Rhodes impiastricciato di fuzz di Skydancer e lassalto sonico della jam stoner di Skydance (con sezioni di intarsi elettro-acustici di grande raffinatezza).
Per chi ancora non conoscesse la produzione della band, In Her Garden è unintroduzione di tutto rispetto (vagamente inaspettata, va detto), la portata introduttiva verso i capolavori Ewige Blumenkraft (2001) e Los Sounds De Krauts (2003). Il miglior disco dellultimo decennio dei Colour Haze e lesempio evidente di come si possa ancora fare musica con le chitarre senza smarrire unoncia di capacità comunicativa.
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