R Recensione

9/10

Michael Brook

Cobalt Blue

In tanti, non senza un tocco di frivolezza, si sono fatti abbindolare dal movimento ambient credendo si trattasse di un risvolto new age, di un’etichetta alternativa cui aderire per poter dire di ascoltare musica diversa dal solito mainstream internazionale. In realtà sono pochi coloro che hanno compreso a fondo l’importanza della musica ambientale ed ancor meno quelli che ne riescono a parlare con misura e giudizio. Io ci proverò attraverso questo capolavoro del genere firmato da Michael Brook, che già con “Hybrid” aveva dimostrato la forza del suo percussivismo. “Cobalt Blue” è un disco difficile perché appartiene all’ala minimalista dello sperimentalismo occidentale. Come sempre, accanto a Brook troviamo l’incomparabile genio del non musicista Brian Eno che qui si fa in quattro per comporre, arrangiare e sintetizzare. È grazie all’unità di intenti di questi due musicisti che il blu cobalto si fa musique d’ameublement, come avrebbe detto Satie negli anni Venti.

Tutto comincia con “Shona Bridge”, per violino e percussioni orientali, un pezzo che rende subito gradevole il viaggio mentale e che immediatamente riempie lo spazio circostante di suoni eterei, levitati, aerei. Con “Breakdown” troviamo il fratello di Brian Eno, Roger, suonare la fisarmonica in un turbinio di pizzichi chitarristici e sfolgoranti lamenti di violino; poi è la volta di “Red Shift”, un brano che propone la medesima struttura compositiva del precedente ma che si fa più sussurrato, disegnando nella mente dell’assorto ascoltatore un mondo naturale utopico e lontano, irraggiungibile. È invece con “Skip Wave” che l’opera di Brook comincia a prendere una piega anticonvenzionale, incentrando il tema su un arguto compromesso intellettuale: muezzin al tramonto, segno di una tradizione antica ed immobile nel tempo, dialogano con la prorompente modernità delle onde corte (simulate) stockhauseniane. Se in “Slipstream” e “Slow Breakdown” l’intento torna quello di accomodare l’ascoltatore nel suo ambiente, con “Andean” ritroviamo lo spirito anarchico ed entropico del musicista canadese: i bicordi I-V-I (numeri romani, non lettere) della chitarra acustica vengono mediati tramite un convertitore midi che rende il suono liquido e melmoso, ferromagnetico come il blu cobalto.

Adesso Michael Brook ci ha definitivamente convinto ad entrare nel suo universo bluastro ed intende ricordarcelo una volta ancora con alcune tracce prettamente acquatiche come “Ultramarine”, “Lakbossa” e “Hawaii”, componimenti in grado di suscitare odori, orizzonti e increspature tipiche dei paesaggi costieri, a volte con calma atavica, altre con impeto giovanilistico; è così che “Cobalt Blue” riesce a spostare geograficamente l’ascoltatore da casa sua verso mete esotiche e desolate, come in un fantascientifico teletrasporto. Così è pure per “Urbana” e “Ten”, canzoni in cui percussioni, campane e kalimba svolgono il mastodontico lavoro di simulare una città che va a dormire, un traffico affievolitosi, un vociare sempre meno ingombrante, un fervore che s’è fatto desiderio di tornare fra le rassicuranti mura domestiche.

Michael Brook e il fido Brian Eno, con “Cobalt Blue”, hanno regalato al mondo un soffice lavoro di avanguardia musicale capace di arredare ambienti fittizi fatti di nuvole ed abbagli, suoni e clangori, quegli ambienti presenti nella nostra mente che difficilmente vengono riempiti dal chiacchiericcio umano, dalla banale reiterazione della quotidianità e dalle effimere gioie che la vita sembra riservarci.

V Voti

Voto degli utenti: 9/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 0:13 del 17 settembre 2010 ha scritto:

Bella recensione per un album incredibile: "l'infinite guitar" colpisce ancora!