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R Recensione

5/10

Nina Zilli

Modern Art

Poteva comportarsi da casta diva, la Nina nazionale: convocare una conferenza stampa apposita, ad esempio, e sconfessare coram populo e con bizze da copertina il precedente “Frasi&Fumo”. Oppure no, sentite qua!, bypassare ogni scandalo mediatico, telefonare direttamente a Mauro Pagani e mandarlo a quel paese (quale? Quello). O ancora, che ne dite?, fare come se niente fosse successo, rimuovere selettivamente e ripartire dal seducente retrò-pop de “L’Amore È Femmina”. Invece Maria Chiara, sì, insomma, Nina – è la stessa cosa – sceglie una via più subdola. Non dice niente a nessuno, diserta i piano bar per la dancehall e Bristol per la Giamaica (ovvero: rinuncia alle sovrastrutture soul per accoccolarsi nel capiente ventre reggae da cui si era al tempo allontanata per tentare la scalata ai piani “alti”), coopta i gettonatissimi Tommaso Paradiso e Calcutta per firmare la hit dell’estate appena trascorsa (“Mi Hai Fatto Fare Tardi”), ritorna a flirtare col bancone di Michele Canova e condisce il tutto con una spruzzata di fricchettonismo da Nuovo Millennio, che è poi il reale stampino che rende “Modern Art” una serigrafia industriale di consumo dalla perfetta e perpetua riproducibilità. Ecco come si rinnega un disco: scrivendone un altro esattamente agli antipodi!

La strategia funzionerebbe, se non fosse che a non funzionare è tutto il resto, quello che conta: i testi, le musiche, gli arrangiamenti. Nonostante quello che si possa pensare, non è facile accorgersene per tempo: ai primi ascolti “Modern Art” suona, di fatto, come una versione urban di un qualsiasi disco precedente di Nina, coi suoi medesimi pregi e difetti. Di scivoloni finanche grossolani ce ne sono, naturalmente, ma in misura che appare, in qualche modo, simmetrica e speculare al recente passato, fatta salva l’autoconclamata svolta “tropical”: l’inascoltabile trap di “Domani Arriverà (Modern Art)” (le progressioni melodiche del ritornello hanno ufficialmente chiesto una tregua per conclamato abuso), il dozzinale electro-rap di “Butti Giù” condiviso con J-Ax, il risibile reggaeton di “Sei Nell’Aria”. È proprio allo scadere del trentacinquesimo minuto e al risuonare delle stereotipiche distorsioni blues di “Come Un Miracolo” (un brano, per dire, che sfodera un chorus del genere: “Sappiamo tutti che la guerra è inutile / Che la pace non è un’utopia / Ma non mi chiedere perché è difficile / È già difficile cambiare idea / Serve coraggio per resistere / Come un salto nel blu”) che casca teatralmente l’asino: cosa ci sta a fare un’assai modesta outtake di “Frasi&Fumo” in coda ad un disco che promette di essere l’esatto suo opposto?

Grande, per farla breve, è la confusione sotto la volta di una scrittura – qui a dir poco polifonica: impossibile citare tutti – che già si era progressivamente (e notevolmente) spuntata al progredire dei lavori in studio. Il vero paradosso è che i rimpianti, a questo giro, se possibile, addirittura aumentano, perché le capacità interpretative di Nina, da sempre smaglianti, in “Modern Art” conquistano il crisma dell’irresistibilità – e la scelta di coverizzare un pezzo difficile come “Il Mio Posto Qual È”, contenuto nel sesto omonimo disco di Ornella Vanoni del 1967, lo dimostra ampiamente, anche se la giostra di beat sintetici chiamata a sostituire le serpentine esotiche dell’originale non si dimostra all’altezza della situazione. Nina dispensa incantesimi a destra e a manca, dando voce a drammi sanremesi d’altri tempi (“Il Punto In Cui Tornare”, dedicato al produttore dell’esordio “Sempre Lontano”, il recentemente scomparso Carlo Ubaldo Rossi, è forse l’episodio migliore del disco), accarezzando soul bianchi (“1xUnAttimo”), cavalcando interessanti gospel ibridi (“IgPF”) e caroselli wannabe Lorde con sensibilità melodiche tutte italiane (“Per Un Niente”). Tutto, però, rimane in superficie, volatile e fatalmente incompiuto. Il clash insanabile, lo si sarà capito, è quello tra gli umori perlopiù elettronici di molti brani e la blackness insistita della tonalità della voce di Nina, che dà vita a canzoni sospese sostanzialmente a metà (la potente apertura del chorus di “Notte Di Luglio” è vanificata dal frivolo accompagnamento di base) o a pasticci meticciati che non vanno molto oltre lo stereotipo (“Ti Amo Mi Uccidi” mette in fila tutti i luoghi comuni danzerecci su Kingston, un campionario di efferatezze da Rototom).

A fare la figura dei critichini col dito puntato non ci teniamo granché, ma – per chi ascolta ed apprezza – è abbastanza frustrante arrivare al quarto disco e non avere ancora un’idea compiuta del percorso di un’artista tanto talentuosa quanto discontinua. La parabola, quella sì, continua a muoversi: verso il basso.

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