A John Frusciante - Un Chitarrista In Fuga Dal Mondo e Da Se Stesso

John Frusciante - Un Chitarrista In Fuga Dal Mondo e Da Se Stesso

John Frusciante è un icona. Uno dei “loser” più caratteristici e famosi degli anni ’90, la cui immagine è entrata ormai nell’immaginario collettivo. Un’immagine inevitabilmente legata alla sua chitarra, lo strumento che gli permette di amplificare a dismisura la densità di significato dei suoi brani. La musica che produce è un canto a due voci; la sua e quella della chitarra, che assume un ruolo quasi alchemico, mistico e soprattutto di redenzione. Un elemento metafisico prima che musicale. Ciò rende unica la figura di Frusciante; la totale devozione al suo strumento; egli è un adepto della musica rock, un fedele seguace dell’arte del suono.

La sua vita, soprattutto in questi ultimi anni, è estremamente frazionata. Appare difficile inquadrarlo al di fuori del contesto peppersiano, il quale gli ha regalato un livello altissimo di popolarità, ma è ormai evidente come egli sia sempre più distante degli altre tre membri della band, sia a livello personale che di approccio alla musica. Egli è un’anima inquieta, alla continua ricerca di sensazioni, stati della mente, paesaggi interiori. Le sue canzoni ben riflettono questo frenetico, a tratti frustrante, desiderio di eternare le emozioni, belle o brutte che siano, e questo anelare ad un sommo equilibrio, spesso assente nel passato del chitarrista, con conseguenze spesso drammatiche, e per questo così ardentemente cercato e voluto.

Fin dagli esordi, nel disco “Mother’s Milk”, Frusciante si è mostrato come un musicista carismatico, capace di influenzare il suono di una band dall’importanza storica non marginale come i Red Hot Chili Peppers. La sua forza non sta di certo nella tecnica, dove non brilla particolarmente, ma piuttosto nella capacità unica che ha di colpire nel segno con immediatezza e vigore, affascinando sempre chi l’ascolta. Oltre a ciò, egli ha saputo creare un linguaggio tutto suo, rivoluzionando in parte l’approccio allo strumento. Di certo è uno dei chitarristi più rappresentativi degli anni ’90. Frusciante è stato, insieme a Kurt Cobain, un antieroe della chitarra, in aperta opposizione a musicisti più egocentrici e magniloquenti come Slash, Dave Navarro, Kirk Hammett, che riscuotevano in quel periodo un grande successo. Furono proprio questi due artisti atipici a forgiare i connotati del guitar hero della generazione grunge, in perpetuo contrasto con il proprio ego e con il successo, alla ricerca di uno stato di illusoria felicità, puntualmente assente e per questo erroneamente cercato nella droga e negli eccessi. È questo il nuovo profilo del musicista-idolo, distante dalla fine tecnica dei guitar-hero degli anni ’70, ma così poeticamente ed umanamente significativo da avere un’espressività anche superiore a questi.

Il Declino

Il primo disco da solista viene pubblicato nel 1994, due anni dopo la sua clamorosa dipartita dai Chilis, in quel momento all’apice della fama; un gesto che segnerà indelebilmente la vicenda del chitarrista, come quella della band losangelina.

Frusciante si trova così solo nel suo mondo, dove può immergersi senza controllo nelle passioni e nei vizi che iniziò a coltivare con i Peppers. Sono otto le overdose che lo colpiscono nel periodo lontano dal gruppo; anni di tormenti, di dolore solitario, lenito solo dagli effetti chimici degli stupefacenti. Rinchiuso nella sua casa, tra musica e droga, John dà libero sfogo al suo animo ferito, deluso e gracile. È qui che si forgia la sua poetica, impregnata di morte e sesso, ma senza veri e propri slanci catartici; piuttosto tende ad evocare sensazioni, dipingendo linee tenui con la sua chitarra. I temi, soprattutto nei primi lavori, non sono completamente messi a fuoco. Anzi, più l’artista si allontana, nell’ambito delle esperienze personali, da queste tematiche, più egli riesce ad analizzarle con sguardo lucido e fermo.

Il primo lavoro di Frusciante, “Niandra LaDes & Usually Just A T Shirt”, è un canto di libertà sconfinato. Risulta davvero impossibile inserirlo in un contesto musicale; è un’opera che parla da sola, risultando spesso straniante e stordente, ma esprimendo in modo unico le sensazioni taglienti e degradanti provate dall’artista. Le pennellate sono rapide e sgraziate, ma capaci di penetrare nel profondo delle coscienze, assumendo a tratti un’intensità sconvolgente. I brani che compongono il disco sono come un affresco, un desolante distillato di decadenza, espressa eloquentemente dai teatrini folli di Frusciante che, messosi qui totalmente a nudo, ci mostra il suo totale disordine mentale. Sono pochi i musicisti che si sono immersi in un intimismo e sincerità tali. Da questo punto di vista, l’opera non ha nulla da invidiare ai lavori più riusciti di Neil Young o Nick Drake, ma anche ai viaggi folli di Syd Barrett .

Le influenze dell’artista, oltre al cantautorato più autentico, vanno ricercate nel folk più stridente ed immaginifico, nonché nel glam degli anni ’70, a cui John fa riferimento soprattutto per quanto riguarda l’immagine che egli intende dare di sé in questo lavoro e per l’approccio femmineo al canto. Spariscono quasi totalmente l’ardore punk rock e le distorsioni dei dischi precedenti. Un taglio netto con il passato quindi, a livello musicale e umano.

Rimangono solo i ricordi del passato goliardico con i Peppers che, seppur recente, è ritratto come un mondo totalmente avulso dal presente. Questo fatto è ben evidenziato dal brano “Your Pussy’s Glued To A Building On Fire” che, a dispetto del titolo volgare, ha un profilo delicato, imperniato sul desiderio di amore che attanaglia John. Questa frustrazione esistenziale si imprime fortemente sui temi musicali. La chitarra che introduce “As Can Be”, uno dei capolavori del disco, è un grido spezzato dal dolore, che lascia poi spazio ad un canto ubriaco. Il totale squilibrio dell’artista è splendidamente disegnato da “Mascara”, un folk dolente che sfocia in un dialogo eccentrico tra i diversi ego dell’artista.

La chitarra delinea bene scenari psicologici tutt’altro che incoraggianti. Il disordine regna sovrano in brani come “My Smile Is A Rifle”, lento incedere decadente, “Head (Beach Arab)”, che risulta quasi fastidiosa, e “Big Takeover”, grezzo folk malato, intruglio velenoso di chitarre. “Curtains” è una ballata vertiginosa, “Running Away Into You” è un abbozzo elettronico dolce ed ossessivo, tra le eco e la chitarra lineare. Il disco prosegue poi attraverso tredici “Untitled“,dove un’elettronica straniante si mescola con l’ipnosi folk.

Niandra LaDes” è un album che viaggia fuori dal tempo; sregolato ed affascinante, è certamente il capolavoro di John Frusciante. Probabilmente la maggior parte delle persone non troverà alcun piacere nell’ascoltare queste folli ballate; ma leggendo tra le righe si può trovare conforto ascoltando la libertà che vola nell’aria intorno a noi.

Un disco che mostra numerosi spunti creativi, interessanti temi musicali ed un’ispirazione irripetibile. La sua unicità consiste proprio in questo, nell’essere frutto di capacità individuale e pregnanza emotiva contingente.

Con il declinare dell’impegno e dell’interesse e con l’aumentare dei problemi personali la musica di Frusciante perde pesantemente qualsiasi valore artistico.

Il disco successivo “Smile From The Streets You Hold” è stato prodotto solo per poter guadagnare i soldi necessari a comprare altra droga. Distante quindi dalla dimensione esistenziale ed anche affascinante del predecessore, il disco del ’97 risulta un terribile viaggio infernale. La critica condizione di Frusciante impedisce in questa occasione di creare anche solo un motivo orecchiabile.

Un disco da evitare assolutamente.

La Rinascita

Con il successivo ritorno nel gruppo, la vita di Frusciante cambia radicalmente. Oltre a disintossicarsi, egli ritrova, almeno parzialmente, un motivo per vivere, qualcosa che lo trascini fuori dal baratro della morte in cui ha rischiato di cadere. Sono l’amore per la musica e l’amicizia a riportarlo in vita.

Ma questa rinascita non è per niente facile. Al di là di “Californication”, che lo ritrae in vesti fin troppo candide, è il disco del 2001To Record Only Water For Ten Day” a darci un ritratto dettagliato del nuovo John Frusciante.

Troviamo un uomo che fatica a ritornare alla vita di prima, trovandosi come legato ad una catena che lo trascina inesorabilmente, impedendogli di scegliere quale via percorrere nel futuro.

Ne è un manifesto “Going Inside”, un vortice subliminale di frustrazioni e paure, con lo splendido video di Vincent Gallo, capace di esprime alla perfezione il senso di impotenza del brano.

Questo immobilismo doloroso si ritrova qua e là nel disco. La glaciale immobilità di “Wind Up Space”, la tensione nervosa di “Away & Anywhere”, la danza solitaria e arida di “Remain” e l’incedere deciso di “Fallout” non fanno altro che rendere “To Record…” un disco sanguigno, crudo, a tratti soffocante. Rappresenta l’aquila che cerca di riprendere il volo, dopo essere stata improvvisamente travolta dal turbinio della vita (espresso in “Niandra LaDes…”), ma si trova davanti a difficoltà che mai si sarebbe aspettata di incontrare.

Tuttavia, Frusciante sa anche regalarci una serie di splendidi episodi pop quali “Someone's”, “The First Season” e “Moments Have You”; o strumentali da brivido come “Ramparts” e la meravigliosa “Murderers”.

Da sottolineare poi l’abbondante utilizzo di sintetizzatori ed il cambiamento di timbro vocale, qui molto più cavernoso e pregnante, ben adatto al nuovo tipo di approccio.

To Record Only Water For Ten Days” è un disco che amplifica notevolmente il bagaglio musicale di Frusciante, seppur non sia commovente quanto il disco d’esordio, e traccia la nuova via da percorrere. Un lavoro unico, che rimane isolato nella discografia del chitarrista in quanto crocevia delle diverse direzioni artistiche intraprese dall’artista. È qui che nasce l’anima più dolce e delicata di John, fortemente condizionata dal suo passato difficile e per questo maggiormente protesa verso lidi musicali accoglienti e calorosi.

La Vita Nuova

Tre anni dopo arriva “Shadows Collide With People”, primo disco prodotto in un vero e proprio studio di registrazione e con una band a disposizione. Sono infatti Flea e Chad Smith, oltre a Josh Klingoffer a suonare per Frusciante.

Questo fatto influisce non poco sul suono del disco, sicuramente più disteso e godibile del precedente, ma anche molto più ampio, a livello di influenze e stili. Per la prima volta troviamo del sano e semplice rock n’ roll, come quello di “This Cold” e “Second Walk”, ma anche qualche spruzzatina di ambient in “Every Person” e “Water”; sono tuttavia le ballate pop a dominare il disco, da “Song to Sing When I'm Lonely” a “Omission”, da “Regret” a “Wednesday's Song”, tutte all’insegna di una solarità inusuale. Ciò che però stupisce sono i tre pezzi strumentali; tre deliri elettronici che ben illustrano quanto si siano estese le competente e la voglia di trovare nuove vie dell’artista. Il vero capolavoro è però “Carvel”, che nel suo continuo mutare esprime tutti gli ego contrastanti di Frusciante, identificandoli a livello musicale. Il misticismo, la veemenza, la drammaticità, la dolcezza e soprattutto la nuova voglia di vivere, che finalmente torna ad animare il chitarrista.

Un lavoro che ci consegna un John finalmente sereno ed in pace con se stesso. Da qui in poi è la musica al centro dell’attenzione.

È il terzo ed ultimo disco esistenziale della sua carriera. Esistenziale in quanto esprime l’essenza e la vita dell’autore. Dopo il declino di “Niandra…” e la rinascita di “To Record…”, arriva finalmente la vita nuova di “Shadows…”.

La molteplicità e varietà del quarto disco si esprimono ancora più chiaramente nella Record Collection, sei dischi pubblicati tra il giugno 2004 e il gennaio 2005. Un progetto ardito quindi, che a tratti ha fatto inciampare il buon John, ma ha saputo anche mostrare l’estrema versatilità del chitarrista, che si cimenta qui in diversi stili musicali, dal pop rock semplice alla psichedelica, dal folk all’elettronica. Non sempre i risultati sono ottimi, ma gli spunti creativi sono davvero numerosi e spesso anche molto interessanti.

Si parte con “The Will To Death” un ispirato disco di pop rock. Dodici tracce all’insegna dell’equilibrio. Si mantiene infatti il pop rock del disco precedente, profuso in maniera più lineare e omogenea. È un lavoro abbastanza continuo, di livello discreto, che cerca uno standard medio più che soffermarsi su canzoni in particolare. “A Doubt”, “The Days Have Turned” e “The Will To Death” sono i momenti migliori, intensi e commoventi, ma tutti mantengono un livello piuttosto alto. In un lavoro come questo emerge la capacità del chitarrista di affascinare con poco; non troviamo di certo canzoni complesse, ma ognuna sa affascinare a suo modo. Frusciante sa trovare sempre le note che colpiscono l’anima, le melodie più accattivanti. Questo lavoro ne è la naturale conseguenza.

Dal punto di vista lirico, troviamo qui un eclatante elogio alla morte; “Il desiderio di morire è ciò che mi tiene in vita”. Mai Frusciante era stato così lucido e pungente, nel riflettere sul suo passato.

Troveremo altri spunti interessanti a riguardo nei dischi successivi.

Tuttavia il progetto cambia subito direttive con “Automatic Writing”, pubblicato con il nome di Ataxia, gruppo formato da Frusciante, Klinghoffer e Lally (Fugazi).

Ci troviamo davanti a cinque lunghi brani psichedelici, intrisi di rumori ossessivi e suoni stranianti. Il tempo si dilata e la musica penetra nella mente come una colata lavica incandescente

John si mostra anche qui aperto a tutte le influenze, riuscendo a produrre qualcosa di nuovo e stordente. I brani, molto lunghi, ruotano intorno a linee di basso e batteria semplici e ripetitive, dando così vita ad un delirante fiume sonoro, che muta, passando dal vociare robotico di “Dust” all’arpeggio melodioso di “The Sides”, dalla nebbia conturbante di “Another” ai suoni liquidi di “Addition”.

Progetto questo tra i più interessanti degli ultimi anni. Forse, se i brani fossero stati più brevi e numerosi, si poteva parlare di capolavoro assoluto; così è solo un ottimo disco, che mostra ancora una volta il talento di un musicista diventato ormai icona.

Il nostro si prende una pausa con “DC EP”, composto da quattro gradevoli brani pop, non particolarmente originali, ma che catturano subito l’attenzione. Composizioni solari, che non stupiscono come nel precedente lavoro, ma sanno invece cullare le nostre percezioni, accarezzandole dolcemente. Canzoni fluttuanti da ascoltare senza pensieri, lasciandosi trasportare dalla chitarra ammiccante. Una serenità interrotta solo dalla vespertina “Repeating”, suonata con le corde dell’anima.

Il quarto disco, “Inside Of Emptiness” vede Frusciante imbracciare nuovamente la chitarra elettrica., ispirato dal rock anni ’70, nello stile dei Velvet Underground e degli Stooges. Nasce così un disco più aggressivo degli altri, un rock melodico frizzante e godibile.

Le distorsioni di “What I Saw”, la ritmica coinvolgente di “A Firm Kick”, equilibrata ed epica, la litania nostalgica di “Scratches” e il riff instancabile di “Look On”, coronato da un assolo veramente magnifico, sono solo alcuni esempi della qualità discreta del disco. Le esplosioni fragorose di “666” e “Emptiness” sono difficili da trovare nell’opera di Frusciante e ci mostrano quindi un artista in continuo mutamento, sempre alla ricerca di nuove idee. Non sempre la qualità è ottima; è però indubbio che un progetto tanto ambizioso sia stato intrapreso con coscienza dei propri mezzi e con le capacità necessarie. Sono pochi i musicisti che avrebbero saputo fare meglio e sono ancora meno quelli che si sarebbero messi in gioco così apertamente, rischiando di fallire in modo eclatante.

Va però riconosciuto quando le cose non funzionano. In questo caso, stiamo parlando di “A Sphere in the Heart of Silence”, un disco molto ingenuo, suonato con chissà quali pretese; è il quinto della Record Collection e probabilmente il peggiore.

Non che sia privo di idee, ma tutto qui è approssimativo, spesso noioso e fine a se stesso. Fare un disco di elettronica con approssimazione è una contraddizione. Facile quindi capire quanto questo disco sia mal ideato. Il problema di fondo è che Frusciante ha preso l’abitudine di registrare dischi in poco tempo, con idee ancora abbozzate. Fin quando si parlava di ballate rock l’idea poteva funzionare, ma quando si è alle prese con sintetizzatori e altri strumenti elettronici, non si può pretendere di improvvisare. Dei sette brani che compongono il disco, si fatica a trovare un pezzo veramente bello.

In questo caso si è fatto un errore di valutazione, pretendendo di fare cose troppo distanti dall’approccio di John alla musica. Poco male, è l’unico disco veramente insufficiente della serie.

Fortunatamente il sesto ed ultimo album abbandona la pretenziosità di “Sphere..” e torna all’essenzialità di “The Will To Death”, risultando parimenti affascinante. L’artista vira questa volta su paesaggi musicali malinconici ed autunnali. Tra i numerosi cambi di stile che hanno contrassegnato il progetto del chitarrista, quest’ultimo è forse il più azzeccato e spontaneo.

John ha capito che l’elettronica fine a se stessa non è il suo forte e decide di lasciarsi guidare dalla sua chitarra acustica, regalandoci ciò che sa fare meglio; undici melodie agrodolci, senza alcuna pretesa, ma coinvolgenti e meravigliose come nella miglior tradizione Frusciante.

Nasce così “Curtains”, un gioiello pop, che avvicina John ai grandi menestrelli del passato come Cat Stevens.

The Past Recedes” è sicuramente uno degli apici della carriera del chitarrista. Un folk che si insinua nelle vene, sviscerando l’essenza stessa del musicista. La frase “perché per stare qui, devi prima morire?” è tra le più commoventi della sua carriera e la dice lunga su come sia cambiato il suo rapporto con i dolori del passato, visti prima come una minaccia da scongiurare, diventati ora una fonte inesauribile di ispirazione e poesia.

Ma il disco ha numerosi momenti lirici, come “Ascension”, “Your Warning” o “Time Tonight”.

Tirando le somme, la Record Collection è un progetto riuscito. L’apice arriva senza dubbio con il progetto Ataxia, ma l’intenso lirismo del primo e dell’ultimo disco sono qualcosa di assolutamente affascinante. Un gradino sotto arriva “Inside Of Emptiness”, meno intimistico, ma gradevolissimo, così come “DC EP”, senza pretese, ma affascinante. Un unico lavoro insufficiente, “A Sphere in the Heart of Silence”, ma è anche comprensibile, in un progetto tanto ampio.

Due anni più tardi viene pubblicato “Automatic Writing II”, frutto delle medesime sessions che diedero vita al primo lavoro degli Ataxia.

Il disco è la continuazione ma al tempo stesso l’evoluzione del precedente; la formula di base rimane la medesima, un post rock sinistro, con sfumature psichedeliche, ma condito dalla giusta dose di melodia. Tuttavia, le spinte più post e psichedeliche si condensano questa volta in due soli brani, mentre i restanti spaziano tra la world music di “Hands”, la veemenza rock di “Union” e i paesaggi invernali della conclusiva “The Empty's Responce”.

I momenti di maggior interesse coincidono comunque coi due brani post rock. “Attention” è un baccanale dark di grande impatto e dai suoni finemente ricamati. Al reiterarsi della sezione ritmica si oppone il continuo variare delle cesellature elettroniche e degli intarsi di chitarra. Forse la migliore canzone degli Ataxia. “The Soldier” si sofferma invece su suoni più affilati e ritmiche incalzanti. La batteria è motivo di continuo interesse, con le sue evoluzioni schizoidi. Particolarmente suggestivo è poi l’accostamento di falsetto e ritmica marziale. Le parti vocali sono impeccabili, Frusciante dà il meglio di sé sperimentando tonalità diverse.

Un disco di buonissima fattura, che perfeziona l’idea esposta nel disco d’esordio. Chissà se ci saranno altre opere a nome Ataxia.

Nel 2009 il nostro torna sulle scene con un lavoro solista, a quattro anni di distanza dall’ultima volta. Viene pubblicato “The Empyrean”, il suo disco più curato, più pensato e complesso. Un concept album di argomento divino che ci mostra il chitarrista in una veste totalmente diversa dal minimalismo casereccio di “Curtains”. Gli ospiti sono numerosi, da Flea a Johnny Marr, ma anche coro e archi per un disco che segna il definitivo affrancarsi di Frusciante dal nudo suono di chitarra, per approdare ad una dimensione cantautorale completa. La chitarra non è più protagonista, il suond è ora completo, anzi, a tratti ci si avvicina fortemente alla pienezza strumentale della musica progressive.

Se da una parte si perde in emotività (anche questo è comunque tutto da dimostrare), la ricchezza del tessuto musicale è sensibilmente superiore rispetto al passato. Si può parlare di un Frusciante maturo, capace di mediare l’ispirazione in forme musicali variegate e sempre compiute.

Oltre a questo, il disco è ricco di ottimi brani. Lo strumentale “Before The Beginning”, suadente e rarefatto, la romantica e struggente “Song To The Siren” (di Tim Buckley) e la complessa “Unreachable” mostrano fin da subito un livello qualitativo molto alto. Il disco prosegue su questi standard, con alcuni picchi: “Central” è uno dei brani migliori dell’intera carriera del chitarrista, sette minuti di pura emozione, “God” è estremamente solida, un perfetto esempio di pop rock di qualità. Il maggior pregio del disco è la continuità, un lavoro solido in ogni sua parte. Anche i momenti più interlocutori svelano col tempo piccoli tesori nascosti. Prendiamo “Heaven”, una ballata in punta di piedi, posta dopo la suite corpulenta (forse troppo) “Dark/Light”, un episodio minore nell’economia del disco: ha una ricchezza di contenuti strabiliante, ogni dettaglio è rifinito con la massima cura.

Degna di nota è anche “One More Of Me”, in cui John sperimenta un timbro vocale insolito, ma piuttosto affascinante. Gli archi movimentano il tutto con i loro saliscendi repentini.

Un disco di grande qualità, uno dei migliori dell’intera carriera di Frusciante. Se opere come “Niandra LaDes” sono impareggiabili per valore emotivo e umano, è anche vero che il bravo chitarrista ha saputo evolvere ed esplorare lidi musicali a lui originariamente non consoni.

Questo è un grande merito.

Insomma, John Frusciante è uno dei chitarristi più rappresentativi degli ultimi decenni, capace di rivoluzionare il suono di una band epocale come i Red Hot Chili Peppers e di proporsi con credibilità in una carriera solista molto interessante e sempre sincera.

Non ci resta che aspettare il prossimo disco del nostro amato John. Siamo sicuri che non dovremo attendere molto e che non rimarremo delusi.

Per approfondire: http://www.storiadellamusica.it

C Commenti

Ci sono 6 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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kikkand alle 20:18 del 29 maggio 2007 ha scritto:

bravo

bella monografia, l'ho letta di corsa ma è fatta bene.

per ora scrivo solo questo, quando avrò un pochetto di tempo la leggerò con calma e scriverò qualcosa di + significativo.

Marco_Biasio alle 22:07 del 30 maggio 2007 ha scritto:

Accidenti

A te i Red Hot piacciono proprio tanto tanto, eh? Ottimo articolo, curato ed approfondito. Di Frusciante ho ascoltato anche qualcosa dei suoi lavori singoli, però sinceramente lo preferisco (anzi: lo preferivo... fino al 1999) nei RHCP.

ozzy(d) alle 0:16 del primo giugno 2007 ha scritto:

stone cold bush

in effetti è un mistero il perché frusciante stia ancora con quei tre loschi figuri....

locke alle 13:11 del 4 giugno 2007 ha scritto:

mmmm

concordo sulla maggior parte delle cose, ma se l'articolo è un invito all'ascolto di frusciante solista da parte di chi non lo conosce, vorrei dire la mia su un paio di cose. ad esempio: "smile from the streets you hold" è ostico, approssimativo, ripudiato dall'artista stesso, ciò non di meno è un lavoro superlativo, con dei picchi che solo Niandra LaDes ha raggiunto. valga per tutte "a fall thru the ground" e la title track. meno compatto ed omogeneo di Niandra LaDes gli rimane di poco inferiore, ed uno dei vertici assoluti della sua carriera: captain beefheart redivivo. avrei da dire sulla produzione successiva, ma è talmente irrilevante rispetto a queste opere che me lo risparmio.

miss_frusciante88 alle 21:34 del 30 agosto 2008 ha scritto:

bella

bellissima però come locke ho dei punti da contraddirti ...

ho tutti i cd di John solista .. secondo me uno piu bello dell'altro e secondo me proprio Niandra e Smile sono i più belli ... un orecchio "moderno" abituato al commerciale tutto uguale dilagato in sti anni potrà non riuscire ad acoltare nemmeno una nota ma proprio xke abituato a roba tuta uguale senza un minimo di introspezione e personalità ... chi ama John come me ,invece vorrà ascoltare il disco , la melodia " a volte straziante , per ore fino a che diventa quasi indispensabile , entra nella testa e non va più via , è bella e ricca di emozioni ... tossico o non tossico John Frusciante è un mito un Dio un filosofo della musica la musica trascende da lui ... dovrebbero ascoltarlo un po di piu tutti .... ciao a tutti comunque ancora complimenti per il pezzo ... posso copiarlo nel blog ??

ThirdEye alle 21:34 del 26 settembre 2015 ha scritto:

Mah. Personalmente ho sempre adorato "Smile From The Streets You Hold". Certamente non raggiunge le vette qualitative del debutto, che rimane uno dei dischi che più ho amato nei '90. A tratti i deliri di John rasentano davvero l'inascoltabile [su tutti 'Enter a Uh'] ma tra le scatarrate, i tiri di bong, le allucinazioni, gli strepiti e le urla disumane, giacciono gemme come "Life's a Bath", il folk ubriaco di "I'm Always", la pseudo-gotica "A Fall thru The Ground", il 'pop' deviante di "Height Down" con River Phoenix a spartirsi il microfono con John, e per finire la commovente title-track. Insomma...un gran disco.