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R Recensione

10/10

John Zorn

Kristallnacht

Parlare di certi argomenti è difficile. Farlo senza scadere nella retorica, specialmente in un paese dove la santificazione arriva, postuma, sotto una pioggia di monetine in faccia, è impresa impossibile. Dire, anche lontanamente, qualcosa di nuovo, interessante, originale, oppure solo sentito, su tematiche già passate, ripassate e torte senza pudore da un pout pourri di critica e sentire popolare diviene azione da strizzarsi il cervello, specie se poi lo sforzo viene vanificato dalla stupidità umana che, ridotti al minimo i vanesi sbrodolamenti encomiastici sull’intelletto e la ragione di cui sarebbe dotato lo zòon politikòn, è l’incancellabile minimo comune multiplo sulla cui base piangersi addosso. Dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, almeno in ambito giornalistico, dovrebbe essere adottato come sport ufficiale: si pretende più chiarezza e meno sentimentalismo nell’informazione, quando poi chiunque non parli per eleganti metafore viene ostracizzato e il suo pensiero viene affondato, tra salamelecchi ed eufemismi. Inutile incoraggiarsi – il solo uso riflessivo del verbo fa un po’ ridere – e ripromettersi di trasmettere, nella maniera più esplicita possibile, la reminiscenza di ciò che è stato ai posteri. Finisce che gli speciali del TG2 vanno in onda a mezzanotte di una domenica qualunque, in pasto a Morfeo e ai camionisti, e gli Arbeit Macht Frei di turno vengono sottratti nell’indifferenza generale. Perché stupirsene? Cosa si è fatto per evitarlo? La precettistica non porta da nessuna parte.  

Lungi da me, chiusa quest’amara riflessione, sproloquiare improduttivamente sull’orrore nazista, lo sterminio programmatico, la necessità del ricordo (a pochi giorni dal sessantacinquesimo anniversario del giorno della memoria). C’è chi si crogiola compiaciuto nel farlo, chi assiste impotente, chi sceglie addirittura di non schierarsi. Se il buonismo porta a questo, le certezze iniziano a vacillare. John Zorn, classe 1953, compositore, sassofonista e polistrumentista di professione, newyorchese di passaporto ma profondamente radicato nel mondo e nelle tradizioni ebraiche, sceglie di non giocare alcuna interpretazione e di mettere in gioco il più puro realismo: la nuda e cruda verità, obiettiva, distaccata, di fronte a centinaia di ridicoli abbellimenti. “Kristallnacht”, presentato, fuori concorso, al Festival Art Project di Monaco di Baviera nel 1992, è lo squarcio palpitante che inchioda, in un bianco e nero corroso dalle lacrime, il momento in cui tutto ebbe, fisicamente, inizio: la Notte dei Cristalli. Migliaia di edifici, commerciali e di culto, rasi al suolo, novecento ebrei uccisi, trentamila deportati nei lager: il nazionalsocialismo si strappava di dosso l’aura di pseudo tolleranza portata con sufficienza nel periodo pre-Olimpiadi berlinesi e non aveva paura di mostrarsi al mondo, finalmente, terribile e folle. Un concept album del dolore, forse. Od uno sguardo, clinico e svuotato di ogni pianto, al quale si alternano, incalzanti ed impietosi, le chitarre di Marc Ribot, le tastiere di Anthony Coleman, il violino di Mark Feldman, il clarinetto di David Krakauer, le trombe di Frank London, le percussioni di William Winant ed il basso di Mark Dresser. L’esegesi della pazzia, vista dalla discendenza delle vittime.  

I fan di Zorn di lunga data sono soliti ricordare il disco, più che per il suo valore musicale ed ideologico, come prima pietra angolare che porterà, nel giro di appena un lustro, allo sviluppo dell’immenso canzoniere Masada, poi replicato nel Nuovo Millennio: una serie sterminata di pezzi, arie, movimenti (circa cinquecento, incluso il successivo Book Of Angels, ancora da terminare) imperniati sul trattamento più disparato del klezmer, il genere per eccellenza della stirpe di Sion. A questo proposito, la possibile coincidenza d’intenzione storica e progettuale, ossia dell’iniziare qualcosa partendo dal principio, prende corpo come e più di una semplice ipotesi. “Kristallnacht”, come la sua sanguinosa trasposizione nel reale, fu un esperimento: vedere sino a che punto si sarebbe sopportata l’obiettività, senza il conforto di un happy end hollywoodiano. Una tortura giocata sui contrasti, dilaniata dai rumorismi, vividamente marchiata a fuoco sulla pelle dei riceventi. Un lungo piano sequenza della notte fra il 9 ed il 10 novembre 1938, poche ore che impressero una svolta alla storia, dove non vi è salvazione, né redenzione: la storia non l’ha portata con sé, in dono, assieme alle macerie ed alle vite distrutte. Cambia, in definitiva, solo il giudizio prettamente tecnico: oltre ogni virtuosismo, aldilà del sentimento e dell’avanguardia, lontano anni luce dall’easy listening degli ultimi anni, il lavoro tocca vertiginose vette di sublime, pesante arte shock, imponendosi, con un buon margine, come miglior disco mai partorito dalla mente del geniale musicista occhialuto. Questo non tanto per la qualità dei suoni, o la forza delle idee (non solo, almeno), quanto per l’espressività fotografica che trasuda da ogni, singolo passaggio. Una galleria degli orrori senza fine, alla quale il presente sta facendo, più che naturale antidoto, bestiale cassa di risonanza.  

La tromba secca, lancinante, disperata che toglie il velo a “Shtetl (Ghetto Life)” è solo un’illusione, specchietto per le allodole dove il violino viene violentato e seviziato per diktat di regime. Quello vero, quello hitleriano: quello che compare, sotto forma di registrazioni radio, a sollevare la nazione in propria difesa (“Republiken, Fallen!”), vanamente mitigato da una dolce nenia mitteleuropea in sfumare che, anzi, rimarrà unica traccia di melodia all’interno di un blocco cupo, ossessivo, claustrofobico, violento. La strumentazione non perde un grammo della ferocia che animava i corpi e le anime delle alte cariche naziste: il dramma si fa più che mai corporeo, concreto, devastante. “Gahelet (Embers)” è il silenzio ambientale, appena percorso da scosse ed archetti, che il mondo osservò nei confronti del massacro, una contrapposizione traumatizzante ed estrema verso il free jazz compulsivo e nevrastenico di “Tikkun (Rectification)” e le aggressioni industrial di una pesantissima “Barzel (Iron Fist)”, litanie e versetti salmodiati ridotti in brandelli all’interno di un coacervo di brutture noise, dove ogni tonfo, ogni gemere è il pugno ponderoso delle percosse, dei supplizi. Un disordine cavalcato dalla sei corde di Ribot in “Gariin (Nucleus - The New Settlement)”, clamoroso inferno hard-no wave che suona, agghiacciante e vaticinante, alla stregua del disastro che fu, e che si ricompone solamente a tratti su “Tzfia (Looking Ahead)”, febbricitante spaccato di tensione e desolazione per elettronica, violino e chitarra.  

Se “Kristallnacht” assume oggi, qui ed ora, i connotati di un manifesto, merito è però, soprattutto, di “Never Again”. Mai più, urla Zorn al mondo, mai più. Non servono parole, panegirici, discorsi da doppiopetto. Non servono immagini. Non servono nemmeno più gli strumenti. Rimane, solo ed esclusivamente, sempre che così possa essere chiamato, il suono. Dodici minuti di oggettivismo raggelante. I vetri dei negozi che passano in frantumi, uno dopo l’altro, senza interruzioni, sotto le urla della gente ed il giubilo di chi agisce. Sembra di vedere il sangue scorrere, la paura balenare negli occhi, le bandiere sventolare impunemente al vento, figlie di un altro Dio. Ancora una volta, tutta la gamma di sofferenze è contemplata, lasciando fuori dalla porta la tenue speranza di una catarsi. Feldman conduce le danze, in solitaria, mentre un campanello squilla con parvenza sacra, disgregandosi ancora una volta nel clangore, nel frastuono, nel putiferio dei cocci di vetro che volano, da una parte e dall’altra, come le vite che rappresentano.  

L’avvertenza è chiara: non ha senso cercare una risposta che non c’è. Ed il male è nulla, soffocato dalle spire del tempo. È questo il modo di ricordare. L’unico, doloroso, ma indispensabile: chi cerca altro, cerca giustificazioni. Mi si permetta di dire che, specialmente ora, non se ne ha proprio bisogno.

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Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 7 voti.
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Emiliano 10/10

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paolo gazzola (ha votato 10 questo disco) alle 11:35 del 27 gennaio 2010 ha scritto:

Un ottimo lavoro Marco, spesso, profondo ed ispirato. Complimenti. Del disco che dire? Dovessi sceglierne uno solo di Zorn, sceglierei questo. Un oggetto di incalcolabile valore, una di quelle cose che restituiscono dignità e valore all'agire umano.

Emiliano (ha votato 10 questo disco) alle 15:45 del 27 gennaio 2010 ha scritto:

Davvero bravo. finalmente su SDM la recensione di questo capolavoro, carico delle suggestioni dello Zorn che fu e dei prodromi di quello che sarà a breve. Di solito diffido di chi riveste la propria opera musicale di significati trascendenti così espliciti, ma a Zorn si concede tutto. Anche di fare uscire ogni anno tutti quei dischi così belli, con conseguenze importanti sul bilancio pecuniario. Ormai con le opere principali del primo periodo ci siamo, a quando una succosa esegesi di Masada e Book of angels? Complimentoni ancora.

PandoFightSound (ha votato 1 questo disco) alle 18:58 del 27 gennaio 2010 ha scritto:

Non lo sopporterò mai quest'uomo, e con lui nessuna delle sue opere.

Luca Minutolo (ha votato 8 questo disco) alle 10:56 del 28 gennaio 2010 ha scritto:

Un vulcano inesauribile di creatività....Ma nella sua interminabile discografia preferisco il live Mountain Of Madness del progetto Elecrtic Masada....Una bomba free jazz mista a rock classico da mettersi le mani nei capelli!!