John Zorn
Kristallnacht
Parlare di certi argomenti è difficile. Farlo senza scadere nella retorica, specialmente in un paese dove la santificazione arriva, postuma, sotto una pioggia di monetine in faccia, è impresa impossibile. Dire, anche lontanamente, qualcosa di nuovo, interessante, originale, oppure solo sentito, su tematiche già passate, ripassate e torte senza pudore da un pout pourri di critica e sentire popolare diviene azione da strizzarsi il cervello, specie se poi lo sforzo viene vanificato dalla stupidità umana che, ridotti al minimo i vanesi sbrodolamenti encomiastici sullintelletto e la ragione di cui sarebbe dotato lo zòon politikòn, è lincancellabile minimo comune multiplo sulla cui base piangersi addosso. Dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, almeno in ambito giornalistico, dovrebbe essere adottato come sport ufficiale: si pretende più chiarezza e meno sentimentalismo nellinformazione, quando poi chiunque non parli per eleganti metafore viene ostracizzato e il suo pensiero viene affondato, tra salamelecchi ed eufemismi. Inutile incoraggiarsi il solo uso riflessivo del verbo fa un po ridere e ripromettersi di trasmettere, nella maniera più esplicita possibile, la reminiscenza di ciò che è stato ai posteri. Finisce che gli speciali del TG2 vanno in onda a mezzanotte di una domenica qualunque, in pasto a Morfeo e ai camionisti, e gli Arbeit Macht Frei di turno vengono sottratti nellindifferenza generale. Perché stupirsene? Cosa si è fatto per evitarlo? La precettistica non porta da nessuna parte.
Lungi da me, chiusa questamara riflessione, sproloquiare improduttivamente sullorrore nazista, lo sterminio programmatico, la necessità del ricordo (a pochi giorni dal sessantacinquesimo anniversario del giorno della memoria). Cè chi si crogiola compiaciuto nel farlo, chi assiste impotente, chi sceglie addirittura di non schierarsi. Se il buonismo porta a questo, le certezze iniziano a vacillare. John Zorn, classe 1953, compositore, sassofonista e polistrumentista di professione, newyorchese di passaporto ma profondamente radicato nel mondo e nelle tradizioni ebraiche, sceglie di non giocare alcuna interpretazione e di mettere in gioco il più puro realismo: la nuda e cruda verità, obiettiva, distaccata, di fronte a centinaia di ridicoli abbellimenti. Kristallnacht, presentato, fuori concorso, al Festival Art Project di Monaco di Baviera nel 1992, è lo squarcio palpitante che inchioda, in un bianco e nero corroso dalle lacrime, il momento in cui tutto ebbe, fisicamente, inizio: la Notte dei Cristalli. Migliaia di edifici, commerciali e di culto, rasi al suolo, novecento ebrei uccisi, trentamila deportati nei lager: il nazionalsocialismo si strappava di dosso laura di pseudo tolleranza portata con sufficienza nel periodo pre-Olimpiadi berlinesi e non aveva paura di mostrarsi al mondo, finalmente, terribile e folle. Un concept album del dolore, forse. Od uno sguardo, clinico e svuotato di ogni pianto, al quale si alternano, incalzanti ed impietosi, le chitarre di Marc Ribot, le tastiere di Anthony Coleman, il violino di Mark Feldman, il clarinetto di David Krakauer, le trombe di Frank London, le percussioni di William Winant ed il basso di Mark Dresser. Lesegesi della pazzia, vista dalla discendenza delle vittime.
I fan di Zorn di lunga data sono soliti ricordare il disco, più che per il suo valore musicale ed ideologico, come prima pietra angolare che porterà, nel giro di appena un lustro, allo sviluppo dellimmenso canzoniere Masada, poi replicato nel Nuovo Millennio: una serie sterminata di pezzi, arie, movimenti (circa cinquecento, incluso il successivo Book Of Angels, ancora da terminare) imperniati sul trattamento più disparato del klezmer, il genere per eccellenza della stirpe di Sion. A questo proposito, la possibile coincidenza dintenzione storica e progettuale, ossia delliniziare qualcosa partendo dal principio, prende corpo come e più di una semplice ipotesi. Kristallnacht, come la sua sanguinosa trasposizione nel reale, fu un esperimento: vedere sino a che punto si sarebbe sopportata lobiettività, senza il conforto di un happy end hollywoodiano. Una tortura giocata sui contrasti, dilaniata dai rumorismi, vividamente marchiata a fuoco sulla pelle dei riceventi. Un lungo piano sequenza della notte fra il 9 ed il 10 novembre 1938, poche ore che impressero una svolta alla storia, dove non vi è salvazione, né redenzione: la storia non lha portata con sé, in dono, assieme alle macerie ed alle vite distrutte. Cambia, in definitiva, solo il giudizio prettamente tecnico: oltre ogni virtuosismo, aldilà del sentimento e dellavanguardia, lontano anni luce dalleasy listening degli ultimi anni, il lavoro tocca vertiginose vette di sublime, pesante arte shock, imponendosi, con un buon margine, come miglior disco mai partorito dalla mente del geniale musicista occhialuto. Questo non tanto per la qualità dei suoni, o la forza delle idee (non solo, almeno), quanto per lespressività fotografica che trasuda da ogni, singolo passaggio. Una galleria degli orrori senza fine, alla quale il presente sta facendo, più che naturale antidoto, bestiale cassa di risonanza.
La tromba secca, lancinante, disperata che toglie il velo a Shtetl (Ghetto Life) è solo unillusione, specchietto per le allodole dove il violino viene violentato e seviziato per diktat di regime. Quello vero, quello hitleriano: quello che compare, sotto forma di registrazioni radio, a sollevare la nazione in propria difesa (Republiken, Fallen!), vanamente mitigato da una dolce nenia mitteleuropea in sfumare che, anzi, rimarrà unica traccia di melodia allinterno di un blocco cupo, ossessivo, claustrofobico, violento. La strumentazione non perde un grammo della ferocia che animava i corpi e le anime delle alte cariche naziste: il dramma si fa più che mai corporeo, concreto, devastante. Gahelet (Embers) è il silenzio ambientale, appena percorso da scosse ed archetti, che il mondo osservò nei confronti del massacro, una contrapposizione traumatizzante ed estrema verso il free jazz compulsivo e nevrastenico di Tikkun (Rectification) e le aggressioni industrial di una pesantissima Barzel (Iron Fist), litanie e versetti salmodiati ridotti in brandelli allinterno di un coacervo di brutture noise, dove ogni tonfo, ogni gemere è il pugno ponderoso delle percosse, dei supplizi. Un disordine cavalcato dalla sei corde di Ribot in Gariin (Nucleus - The New Settlement), clamoroso inferno hard-no wave che suona, agghiacciante e vaticinante, alla stregua del disastro che fu, e che si ricompone solamente a tratti su Tzfia (Looking Ahead), febbricitante spaccato di tensione e desolazione per elettronica, violino e chitarra.
Se Kristallnacht assume oggi, qui ed ora, i connotati di un manifesto, merito è però, soprattutto, di Never Again. Mai più, urla Zorn al mondo, mai più. Non servono parole, panegirici, discorsi da doppiopetto. Non servono immagini. Non servono nemmeno più gli strumenti. Rimane, solo ed esclusivamente, sempre che così possa essere chiamato, il suono. Dodici minuti di oggettivismo raggelante. I vetri dei negozi che passano in frantumi, uno dopo laltro, senza interruzioni, sotto le urla della gente ed il giubilo di chi agisce. Sembra di vedere il sangue scorrere, la paura balenare negli occhi, le bandiere sventolare impunemente al vento, figlie di un altro Dio. Ancora una volta, tutta la gamma di sofferenze è contemplata, lasciando fuori dalla porta la tenue speranza di una catarsi. Feldman conduce le danze, in solitaria, mentre un campanello squilla con parvenza sacra, disgregandosi ancora una volta nel clangore, nel frastuono, nel putiferio dei cocci di vetro che volano, da una parte e dallaltra, come le vite che rappresentano.
Lavvertenza è chiara: non ha senso cercare una risposta che non cè. Ed il male è nulla, soffocato dalle spire del tempo. È questo il modo di ricordare. Lunico, doloroso, ma indispensabile: chi cerca altro, cerca giustificazioni. Mi si permetta di dire che, specialmente ora, non se ne ha proprio bisogno.
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