A Live - Low (Milano, 29 Maggio 2007, Rainbow)

Live - Low (Milano, 29 Maggio 2007, Rainbow)

Ammetto che c’era un po’ di esitazione all’idea di assistere a un concerto dei Low. Non certo per l’impatto che avevano destato le ultime uscite discografiche (album mostruosi come Trust, The Great Destroyer e l’ultimo gioiellino Drums And Guns), né tanto meno per il valore generale del gruppo in sé, una certezza ormai nel panorama musicale degli ultimi quindici anni.

Lo scetticismo che serpeggiava un po’ nell’aria poggiava sul dubbio che la loro musica potesse non essere in grado di emozionare dal vivo come dalle registrazioni su disco. Che in fondo, diciamocelo chiaramente, album spettacolari come Drums And Guns o Long Division colpiscono dritto al cuore ma sembrano discorsi adatti per una gelida serata autunnale sdraiati comodamente davanti al fuoco di un camino che non per una serata estiva afosa in piedi davanti a un palco. Il pericolo vero era di perdere parte della magia e della passione e scadere in momenti noiosi e ripetitivi. Accuse pregiudiziali forse stereotipate e ingiuste per un genere (lo slow-core) giudicato ingiustamente molle e monotono. Tuttavia è indubbio che in un concerto sia più facile riuscire a coinvolgere un pubblico ansioso di movimento con urla stramazzanti, assoli al fulmicotone e ritmi scatenati piuttosto che con poesie sonore spalmate di velluto.

Questi e altri pensieri mi passavano per la testa mentre aspettavo il mio fido compagno di concerti come al solito in imbarazzante ritardo. Inevitabile che all’arrivo al Rainbow l’artista spalla (di cui non so nulla tranne il nome: Death Vessel) abbia già iniziato a suonare, fatto deprecabile che mi impone di prestare attenzione al resto dell’esibizione limitando le chiacchiere.

Seduto a distanza dal palco mi trovo ad ascoltare un tiepido e insignificante folk-country d’altri tempi che sciupa una voce femminile neanche brutta di per sé, ma tremendamente sprecata al supporto di note vecchie di almeno quarant’anni e oltrettutto pure zoppe.

La prima cosa che viene in mente è che si poteva cenare con maggiore calma e accumulare un ritardo molto più consistente per evitare questi tormenti lamentosi.

Non potendo tornare indietro nel tempo per ingannare l’attesa lo sguardo vaga sull’esiguo (ovviamente) pubblico. Un po’ di gente arriverà all’ultimo momento ma non abbastanza da riempire ampi spazi nelle prime file sotto il palco. Concentro la mia attenzione sulla figura dell’artista che ci tedia pensando di intrattenerci: incuriosito da un viso particolarmente brutto mi avvicino e scopro che le bella voce femminile appartiene in realtà ad un uomo. Eh, tempi moderni, direbbero Chaplin e la De Filippi. Il tempo di riprendersi dalla sorpresa e da un’esibizione complessiva scabrosa (nonostante un paio di pezzi decenti in chiusura, probabilmente cover) ed ecco che finalmente entrano in scena i Low. Per chi non lo sapesse sono in tre: Alan Sparhawk (voce e chitarra), Mimi Parker (voce e batteria) e Matt Livingstone (basso), quest’ultimo il membro più giovane ad accompagnare i due mostri sacri solo da un paio d’anni. Sarà per questo motivo o sarà per il fatto che Sparhawk è esorbitante ma non lo noteremo quasi mai, nonostante un’esibizione senza sbavature. Noteremo invece come tutti i dubbi iniziali si sciolgano come neve al sole di fronte ai primi pezzi. Si apre con Sandinista e a dir la verità mi aspettavo qualcosa di più da uno dei pezzi più belli dell’ultimo Drums and guns. Ma vengo poi ripagato ampiamente con le atmosfere eteree traboccanti di sogno e paradiso che escono da brani come Murderer, Belarus, Take your time, Violent past.

Mimi Parker non è più nel fiore degli anni ma stupisce il suo modo minimale di suonare la batteria: qualche fruscio, qualche tocco appena più spinto e in generale una grande sensibilità musicale. La voce poi è sublime e Dust on the window acquista particolare spessore con la sua impronta sensuale e raffinata. La Parker però non sembra molto ben disposta e non la si nota mai particolarmente entusiasta, al contrario di uno Sparhawk che domina la serata con il suo carisma.

Mascella quadrata e sguardo alla Bud Spencer (non so se avete presente quegli occhi sempre semi-chiusi), camicia scura old style e una classe infinita. Tiene il palco in una maniera incredibile con una presenza scenica imponente: non fa mossette, non salta, né sfodera colpi speciali di kung-fu alla chitarra. Anzi, lui la chitarra l’accarezza, e non solo metaforicamente. Raramente ha usato il plettro, preferiva pizzicarle a dita nude quelle corde benedette che emanavano note magiche. E sa quando accelerare il buon Sparhawk, lo si vede dai pezzi più energici come Breaker e In silence, che tengono il sottoscritto dritto sulle punte dei piedi, che di tecnica ce n’è davvero tanta. E che dire di When I go deaf, che dopo il classico inizio liturgico sfocia in un assolo ancora più violento di quello presente su The Great Destroyer? E poi Pissing, altro momento devastante per intensità emotiva. No davvero riesce difficile trovare punti deboli in una serata del genere. Forse la durata può essere uno di questi: appena un’ora e un quarto circa, volata via in un batter d’occhio. Però quando il trio ti va a ripescare un piccolo gioiello perduto come Shame (addirittura da Long Division) e concede un paio di bis a scelta del pubblico come puoi rimanerci male? E come puoi non restare in pace col mondo dopo la degnissima chiusura di Monkey richiesta a gran voce dai presenti?

Alla fine penso che il concerto dei Low me lo ricorderò così: con Sparhawk che attacca l’incantevole Silver rider con quella sua mano fatata e quella sua tonalità di voce perfetta accompagnato dall’altra ugola celestiale della Parker. Impossibile dimenticare i loro volti durante l’esibizione.

I Low…Musica per innamorati e per poeti.Cuore spezzato.Pelle tremolante.E cervello ipnotizzato.

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