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R Recensione

10/10

Galaxie 500

On Fire

Ricordo ancora con simpatia il periodo di beata ignoranza in cui sostenevo apertamente la supremazia indiscussa del ventennio ‘60-70 rispetto alla miseria che offrivano gli ’80 al rock. Ogni volta che ci penso non riesco a trattenere il sorriso. Non sapevo, non conoscevo gruppi di levatura enorme come Wipers, Dream Syndicate, Gun Club, Feelies e Galaxie 500, gruppi-culto rimasti tuttora (purtroppo) nelle discografie di pochi appassionati.

La vicenda dei Galaxie 500 poi è degna di nota: il gruppo si forma a metà anni ’80 a Boston da tre laureati di Harvard (Dean Wareham-chitarra e canto, Naomi Yang-basso, Damon Krukowski-batteria) che dopo un breve rodaggio tirano fuori dal cilindro tre album strepitosi in un solo triennio (1988-1990) in cui di fatto riportano in auge una certa attitudine musicale che si credeva perduta. On Fire è sicuramente il loro capolavoro, un disco di una grazia con pochi eguali nella storia del pop.

Pop che per i Galaxie 500 assume valenze molto particolari: come i tardi Velvet Underground vi è una forte componente psichedelica, talvolta distorta, quasi sempre scarna ed essenziale. I Galaxie sono inoltre sempre molto attenti a tenere bassi i ritmi, in un’attitudine che anticipa gli Stone Roses e un certo tipo di slowcore in voga nei 90s. Le tematiche sono decadenti ed esistenziali e ogni testo sembra un piccolo bozzetto, una piccola rappresentazione di un fatto solo apparentemente insignificante. In realtà quella dei Galaxie è una maestosa poetica del particolare che affascina per la sua spontaneità e raffinatezza. Musica senza tempo e luogo, che merita di essere descritta in ogni dettaglio.

E allora elenchiamoli questi dettagli: si parte con Blue thunder, chitarra e batteria accompagnano un canto astrale che evoca l’imponenza di un immaginario spettacolo siderale che diventa un’occasione per sfogare le proprie ansie (Singin' out aloud) e per fuggire con la mente verso nuovi lidi (I'll drive so far away), il tutto all’insegna di uno splendido pop sognante con magnifici momenti passionali e un assolo d’annata a contorno che i Suede si studieranno bene qualche anno dopo.

Tell me inizia dolce, soave, soffice e romantica e poi in un oceano di quiete viene frantumata e distorta da un assolo rude ma emozionante. In effetti noteremo spesso come i brani presentino una struttura spesso analoga: inizio in sordina, stasi circolare e infine rottura sonora con un assolo o un’accelerazione strumentale. Snowstorm testimonia la scelta di strutture semplici ma più che efficaci, così mentre all’inizio Wareham tiene costantemente i soliti due accordi in un circolo infinito nella seconda metà si diverte a far gorgheggiare innocenti e leggeri giochi psichedelici. Strange è un capolavoro assoluto, una delle vette più alte del pop di tutti i tempi. Wareham si supera: il suo canto è straziante e intenso, sguaiato e passionale, riesce in poche parole a far sentire dal profondo l’anima, la sincerità, l’onestà, ma anche l’angoscia, la paura, il senso di vuoto. Come reagisce infatti il nostro eroe a una serie di dubbi solo a prima vista banali (Why's everybody actin funny? Why's everybody look so strange? Why's everybody look so nasty? What do I want with all these things?) e che sembrano mostrare l’approssimarsi di una nevrosi, di un’ostilità verso il mondo circostante, di ogni persona che stia attorno? Come reagisce, dicevamo, il nostro Dean Wareham? Facendo finta di nulla, buttandosi nella routine quotidiana (I went alone down to the drugstore I went in back and took a Coke I stood in line and ate my Twinkies I stood in line, I had to wait), in una disillusione totale, in una mancanza di stimoli quasi mostruosa a sentirsi. Sembra questa un’enorme tristezza personale: in preda all’ansia, in un momento di crisi l’unica cosa che viene in mente è far finta di nulla e proseguire, comprare una coca-cola e aspettare…

Alla fine del brano si sente la rabbia per questa situazione, una rabbia silenziosa in Wareham, ma che viene esposta lucidamente dalle progressioni strumentali di batteria e chitarra (altro assolo devastante) a rincorrersi sempre più forte.

Non aiutano certo a riprendersi gli strazianti acuti spalmati su una dimensione astratta in When will you come home, in cui si canta di una disperazione amorosa quasi adolescenziale (When, when will you come home? Now, I'm crawlin on the floor Makin noises like a dog). La chitarra torna a essere rude e si cimenta inaspettatamente in distorsioni low-fi prima di impennarsi nell’ennesimo finale strumentale in crescendo.

Decomposing trees è un altro splendido giro di note vibranti. Canzone schietta e vitale che colpisce al cuore col suo cantato angelico che però stona con un testo visionario probabilmente dovuto alle droghe (My toes can talk And they're smiling at me) che mantiene comunque una coscienza della propria condizione di malessere profondo (I walked upstream And I sat in the mud Life sucks again Watching trees decompose) alla cui declamazione entra in scena il sax jazzato di Ralph Carney che aggiunge ulteriore linfa a un brano già di per sé straripante. Il finale è quasi un’orgia sonora, ma è un peccato dire orgia. Troppo volgare. Qui si respira sempre un’aria raffinata ed elegante, sofisticata ma non snob.

Another day tenta di spezzare questa desolazione esistenziale invitando all’azione, alla vita (Cause it's okay if everyday Is not the same way It's just another way That everyday is not the same) e lo fa con la suadente voce di Naomi Yang che ci illude di passeggiare su un cielo stellato condito di finale composto da delirio psichedelico e coro soave.

Leave the planet conferma l’impressione di una musica più primaverile e fresca, solare nel suo messaggio utopistico (Don't even bring your wallet […] It's time to leave the planet […] I could bring my guitar), musica da ascoltare quando la vita torna a fiorire e il calore penetra l’aria, con quel cantato a volte sgraziato ma genuino a fare da sole, e gli splendidi intrecci lisergici di chitarra a fare da luce.

Ma è solo un’illusione. Plastic bird è di nuovo un bozzetto di distruzione e frastuono (Gave me your plastic bird Well I broke both legs off And then I smashed its nose And left it on First Avenue) e gli intrecci sonori fitti, carichi di echi di colpe lontane, riportano alla mente le trame più funeree dei Velvet Underground.

Poi arriva Isn’t it a pity e davvero, se avete resisitito fino adesso, non potrete trattenere quella lacrimuccia che sta pronta a scappare già da un pezzo. Impossibile infatti resistere a una romantica ballata agghiacciante nella sua vuota malinconia. Tenetevela stretta questa canzone, vi servirà in tempi sentimentali burrascosi con la vostra donna (non per niente il testo è preso da un vecchio guascone come George Harrison). Stilisticamente non c’è molto da dire: solo l’ennesima progressione perfetta, condita dal solito giro di chitarra perfetto che si chiude nell’ormai abituale assolo perfetto, pulito, lustrato a lucido ma pieno di passione da far venire la pelle d’oca.

Nell’edizione ristampata del disco compaiono tre bonus track di notevole fattura: Victory Garden, cover personalissima dei Red Crayola, mostra un leggero calo di tensione con una trama sonora tendente al blues che invece di esplodere rimane soffocata da un’aria troppo melensa. Cold night conferma il lieve calo d’ispirazione pur restando un dream-pop a tinte tragiche (I think the window froze I think my head is broke I think my toes won't move) d’altissimo livello.

Ceremony è un’altra cover (dei Joy Division stavolta) strapazzata a dovere dai Galaxie. Invece del ritmo sfrenato e della voce violenta di Ian Curtis troviamo un suono tra Stone Roses e Jesus and Mary Chain (specie per il cantato filtrato) in una versione che rispecchia lo stile claustrofobico del gruppo e che sfocia nell’ultimo strepitoso finale impetuoso in cui per la prima volta a livello strumentale sembra che la triste malinconia lasci il posto a una frustrazione diventata violenta che necessita di sfogarsi.

Roba che se Ian Curtis fosse ancora vivo si sarebbe inchinato per rendere omaggio a un gruppo straordinario: i Galaxie 500, musica che parla al cuore.

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Voto degli utenti: 8,6/10 in media su 20 voti.
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C Commenti

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barkpsychosis (ha votato 9 questo disco) alle 9:09 del 24 luglio 2007 ha scritto:

già...

disco senza dubbio straordinario..un must da avere assolutamente! ottima recensione, complimenti!

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 9:30 del 16 agosto 2007 ha scritto:

peasy colpisce ancora! grande album e bella recensione

salvatore (ha votato 10 questo disco) alle 23:11 del 13 gennaio 2010 ha scritto:

Troppo bello... Emozionante come pochi altri

bart (ha votato 8 questo disco) alle 0:28 del 4 aprile 2010 ha scritto:

Struggente

casadivetro (ha votato 10 questo disco) alle 5:46 del 23 marzo 2011 ha scritto:

Umano, troppo umano.

Vincent Benzine (ha votato 9 questo disco) alle 20:02 del 14 agosto 2011 ha scritto:

Quando la parola malinconia cerca un suono per definirsi...

Utente non più registrato alle 17:41 del 25 giugno 2012 ha scritto:

Proprio niente male questo disco