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R Recensione

8/10

Art Of Fighting

Second Storey

L’Australia è un po’ il Paese delle Meraviglie. Poca gente, grandi spazi, natura spettacolare e animali tanto assurdi che quello “strano”, là, è una specie di castoro col becco ed i piedi palmati. Alla faccia nostra però, e alla faccia della nostra millenaria - e millantata - cultura, la terra dei canguri ha dato i natali ad un ragguardevole numero di musicisti rock&dintorni di primissimo piano; abbastanza eclettici, poi, da poter essere ripartiti dentro generi completamente diversi (AC/DC, INXS, Go-Betweens, Birthday Party, Saints, Radio Birdman, Died Pretty, Dirty Three… Insomma, ci siamo capiti). Questo per dire che, al di là della radice anglosassone di cui certa musica sembra avere bisogno, in Australia la roba buona la sanno riconoscere e, soprattutto, valorizzare ed esportare.

Le eccezioni, che ovviamente ci sono e immagino siano tante, si dice servano a confermare la regola. L’eccezione rappresentata dagli Art Of Fighting di Melbourne, però, è talmente eclatante che liquidarla nel sapere popolare avrebbe il sapore di un oltraggio. C’è, in effetti, da chiedersi il perché di una carriera defilata, costantemente ai margini, risolta per intero nel nobile limbo che sta fra il culto adorante e la fredda indifferenza. Certo, non che abbiano inventato niente, gli Art Of Fighting. Non che siano uno di quei gruppi da portare necessariamente in palmo di mano. Perfino io che, lo ammetto, ho un debole per il quartetto australiano, non impazzisco per l’intero corpus delle loro pubblicazioni (in particolare il loro terzo ed ultimo LP - Runaways, del 2007 - ha rappresentato per molti versi una cocente delusione). Impazzisco, però, per questo Second Storey, senza dubbio fra le più belle cose che mi siano mai arrivato alle orecchie.

Gli Art Of Fighting suonano un pop etereo e delicatissimo, decisamente lento, segnato da uno spleen malinconico, intimamente romantico e però sempre permeato da un’atmosfera di “giovanile purezza” che riconduce immancabilmente alla Glasgow puritana dei primi anni ‘80. I Red House Painters che incontrano gli Orange Juice? Qualcosa del genere, non fosse che le arie levigate in cui la melodia è lasciata spesso e volentieri al basso, il carattere onirico e un debole per le strutture in crescendo li fanno assomigliare a dei Galaxie 500 che alla psichedelia abbiano preferito il post-rock (e al blues i Sigur Rós). Un’idea di suono già ben sviluppata nell’LP d’esordio (l’ottimo Wires, che nel 2001 accese i riflettori sul gruppo) e mantenuta, con poche variazione, nei due album successivi, a incorniciare una carriera tanto duratura nel tempo quanto avara nel numero di pubblicazioni (ad oggi due EP, entrambi degli anni ’90, e tre LP).

Second Storey, l’avrà capito chi è stato attento, è la seconda uscita della band a tre anni dalla pubblicazione di Wires. Rappresenta indubitabilmente il prodotto di uno stato di grazia che immagino irripetibile. Non solo per l’illuminata scrittura del cantante Ollie Browne - le cui melodie e interpretazioni, qui, raggiungono vette espressive insostenibili - ed il superlativo lavoro di tutti gli altri componenti (con Ollie ci sono il fratello Miles alla chitarra, l’antica fiamma Peggy Frew al basso e voce e il polistrumentista Marty Brown - pure nei Sodastream - alla batteria), ma anche perché da tutto il lavoro trasuda una cura maniacale per l’arrangiamento e un’autentica ossessione per l’overdub e la stratificazione delle trame sonore.

Magistralmente costruito (per quel che un’affermazione del genere può voler dire se riferita a contesti tanto sotterranei), Second Storey ha un’identità prorompente ed una compattezza da vero peso massimo. La musica sembra emergere direttamente da quell’oceano finemente acquerellato in copertina (“Everything in nature moves in waves” canta Browne in apertura) e - miracolo! - riesce nell’impresa impossibile di rinnovare l’immaginario ormai consunto delle più comuni disillusioni giovanili (l’amore - quella cosa banale che tale resta finché non si viene abbandonati come una scarpa vecchia - è naturalmente il centro di tutto).

In un prodotto tanto omogeneo, spicca negativamente soltanto la “debole” Your Easy Part, unico brano a poter essere tacciato di una certa banalità nelle scelte melodiche. Altre due “anomalie” - il quasi solo basso/batteria di Where Trouble Lived, cantato dalla Frew, che anche per questo ricorda molto da vicino le scheletriche scurezze dei Mazzy Star e la rockeggiante Sing Song, l’episodio più veloce e pesante ritmicamente - restano comunque su ottimi livelli, andando piacevolmente a frammentare un ascolto altrimenti, per stile, decisamente uniforme.

E proprio in questa uniformità si celano le perle autentiche del disco. Along The Run, in apertura, ci accoglie con un suono subito pieno: il ciondolare di un basso che si trascina stanco fra un contrappunto e l’altro, le articolazioni lievi e mai banali di una batteria spazzolata, i tappeti di accordi che umilmente provano, senza riuscirci, a rimanere in sottofondo. E poi la voce. Una voce che fin da subito ammalia sia per caratteristiche che per gusto metrico e melodico. Il timbro beffardo fa sembrare in falsetto anche le note più gravi, eppure niente appare minimamente edulcorato (o no, Chris Martin?), o troppo controllato (giusto, Thom Yorke?) o sottilmente asessuato e ultraterreno (vero, Jónsi?): che siano drammi o sogni, i mondi di Ollie Browne si mostrano sempre crudi, reali, estremamente sinceri. Da pelle d’oca, insomma.

Indimenticabili le linee vocali nella ballata iniziale e nella successiva Busted, Broken, Forgotten (cos’è la voce dopo l’inserto di armonica se non una delle più belle cose che si possano ascoltare?), ma ugualmente indimenticabili sono le progressioni e l’intensità nei fragili crescendo di Break For Me e di Two River, brano in cui un’iniziale, placida calma cede il passo a lusinghe post-rock nell’inaspettata deflagrazione centrale. Che dire poi delle ascensioni rapaci nella “sinistra” Real Time o nella conclusiva, splendida, Heart Translation? E come resistere a quel “I do, I’m right” che apre meraviglie in Come Round And Show Me

Non la finirei più. Elogi, elogi, elogi. Col rischio di scadere nella non credibile celebrazione di un amore personale. Dio me ne scampi, davvero. Ma è difficile cogliere l’attimo in cui l’obiettività crolla di fronte ai sentimenti. Soprattutto se i sentimenti, obiettivamente, nascono da un fottuto capolavoro come questo.

 

  

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Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 4 voti.
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babaz 9/10
target 8/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 9:33 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

Porca miseria

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 9:34 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

Porca miseria...

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 9:44 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

... porca miseria Paolo che disco hai rispolverato! L'hai rispolverato per altri ma sicuramente non per me, perchè questo è uno di quei dischi che non hanno mai preso polvere nella mia collezione. Musica che va dritta al cuore con una delicatezza unica.

babaz (ha votato 9 questo disco) alle 11:12 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

Disco incantevole!!La cosa più vicina ai Red House Painters che mi sia capitato di ascoltare!!!Io gli do tranquillamente 4,5!!Bravo per il ripescaggio!

salvatore (ha votato 8 questo disco) alle 11:21 del 11 febbraio 2011 ha scritto:

Malinconia allo stato puro. Bellissimo disco, come anche wires, entrambi consumati!

E bella pure la recensione!

target (ha votato 8 questo disco) alle 14:37 del 15 febbraio 2011 ha scritto:

Wow. Bello bello. Grazie Paolo!

paolo gazzola, autore, alle 15:20 del 15 febbraio 2011 ha scritto:

Di nulla, felice se ti è piaciuto. In effetti volevo proprio fare propaganda... E grazie a tutti per l'entusiasmo, credevo di essere pazzo.