Seam
The Problem With Me
I Seam sono un gruppo di culto, talmente semi-leggendario e semi-dimenticato (scarsissime le monografie, articoli e recensioni su di loro in giro per il web) che non si poteva continuare ad accettare un simile scandalo senza mettersi al lavoro per lo meno su The problem with me, quello che forse è il loro miglior lavoro di una carriera breve ma intensissima (anche se la lotta con l’esordio è durissima).
Headsparks (1991) era infatti duro, ritmato, quasi una diamante grezzo nella sua scorza ruvida, conscio e portatore delle istanze dei membri fondatori del gruppo: tra questi si trovavano il batterista Mac McCaughan (che nei Superchunk in realtà era cantante e chitarrista) e soprattutto quel Sooyoung Park che assieme a David Grubbs aveva portato alle estreme conseguenze l’hardcore americano con quel gruppo fondamentale che sono stati i Bitch Magnet. Nascono come un supergruppo i Seam, e saranno caratterizzati soprattutto nei primi anni da una line-up assai mutevole, cosa che non sembra aver particolarmente danneggiato la band, visto il livello dei dischi ma anche il calibro dei nuovi ingressi, (tra i quali ad esempio il chitarrista Ken Brown dei Bastro).
Il fatto che l’unico a restare saldamente in sella per tutto il decennio di attività del gruppo (1991-99) sia stato Sooyoung Park attesta non solo l’evidente centralità del suo genio creativo (con tutto il rispetto per gli altri membri che sarebbe riduttivo definire solo collaboratori o turnisti), ma anche l’importanza della figura-leader come “l’anima vocale” in grado di aggiungere quell’emozione artistica primordiale che solo i Grandi sono in grado di far raggiungere a noi comuni mortali. The problem with me in questo è perfetto, giungendo a risultati che sembrano fornire il perfetto trait d’union tra tragicità grunge in moda all’epoca e gli ultimi residui di noise-core ormai stemperati in robusti sacchi di melodie pop. Il tutto senza svendersi, senza giungere ad un sound commerciale o ricamato, ma senza nemmeno riproporre asprezze tali da poter ricondurre i Seam nel puro filone “core”.
Qualcuno ha parlato del gruppo come una delle cose più vicine agli Slint, trionfanti solo un paio d’anni prima con il gioiello Spiderland. In realtà è più una discendenza lontana che una vicinanza: abbandonata ogni possibile via che riconducesse al post-rock Park e soci hanno dato seguito ad un percorso che in questo disco produce perle di languore e concisione assolute (Rafael) in cui anche quando ci si lascia andare alle gloriose scorribande sonore di sicuro impatto emotivo e sonoro (Bunch è IL capolavoro in tal senso, ma anche brani Sweet pea non scherzano) non si può non constatare di quanto si viaggi vicini a gente come gli Afghan Whigs.
In questo sta la grandezza dei Seam e in particolare di questo disco: di aver saputo tenere presente il dolore, la passione e il sentimento vero che emanavano gruppi come i Codeine e di averli trasfigurati nel formato alt-rock, giungendo a loro modo inconsapevolmente (nonché per altre vie) a sonorità ed estetiche che non possono non far pensare ad un grunge particolarmente etereo e compassato. L’altro elemento decisivo è la dolcezza e la triste malinconia così squisitamente adolescenziale che si ritrova in gioielli strazianti come la devastante Dust and turpentine (con quell’ossessivo “don’t tell me what you do…!”) e nella grande raffinatezza di Road to Madrid, brano che come altri (Stage 2000, Something’s burning) segue una struttura furbescamente bipolare, partendo da ritmi compassati e appena abbozzati in un ballad style (talmente morbido e soffuso da suonare spesso ai limiti dello slow-core) e lasciando progressivamente spazio a sontuose escalation emozionali e sonore.
In tutto ciò ha sicuramente giocato un certo rilievo l’influsso di un certo dream-pop, ma in particolare dei Galaxie 500 di Dean Wareham, il cui stile chitarristico emerge nitidamente nella sublime The wild cat, brano che dopo un climax epicamente inarrivabile raggiunge vette di straziante dolore (“I’ve got nothing for you!”) di un’intensità emotiva tale che in futuro solo i Cursive riusciranno a ripetere. È questa la vera chiusura del disco, che si trascina infine nella quiete un po’ stucchevole di Autopilot, in cui aspetti invano il botto finale che non arriva. Si chiude in maniera compassata, come la quiete dopo la tempesta. Un acquazzone di lacrime e riverberi ci ha investito e ci ha lasciato con l’amaro in bocca, dieci anni di meno, e una piccola ferita in più nel cuore.
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