A Mark Lanegan's Bubblegum - Controrecensione

Mark Lanegan's Bubblegum - Controrecensione

 Un lieve pianoforte, il suono fragile di un antico carillon che un tempo suonava per far addormentare bambini, ormai niente più che polvere. È così che si apre “Bubblegum”, sesto lavoro del cantautore americano Mark Lanegan, secondo con la Mark Lanegan Band (anticipato dall’ep “Here comes the weird chill”), un disco sporco, trasandato, distrutto, ispirato dalla dannazione: testi maledetti si insinuano tra le atmosfere sordide di note spesso strappate con una stanca violenza dagli strumenti, la voce di Mark Lanegan dà loro una forza magica esprimendosi a metà tra quella di un bluesman che gratta la gola su un disco degli anni ’30 e quella di un Tom Waits sdraiato sul divano di un buio locale di striptease.

È proprio in un luogo simile che Lanegan sembra voler condurre l’ascoltatore. Tra la sua voce e le note, si leva spesso, meravigliosa nel suo contrasto con il resto, la voce di PJ Harvey, come quella di un angelo caduto nei bassifondi squallidi del mondo umano, che cerchi di respirare, di trovare ossigeno tra i fumi tossici, di accompagnare la violenza, l’eccitazione, la disperazione, la follia della voce di Lanegan, quasi tentando di redimerla dai propri peccati, di guidarla verso la retta via, senza mai riuscire nel proprio intento. La musica si trascina sfinita in questa atmosfera di contrappunti vocali e a volte esplode in sferzate violente, sempre galleggiando al disopra di una nebbia alcolica che invade gli spazi vuoti: è questo il luogo dove vuole stare, a proprio agio dentro questa assurda notte senza luna, si abbandona perversa a una bassa seduzione, a un conturbante senso di perdizione.

  “When your number isn’t up” sembra essere il discorso che Lanegan fa a un portiere, forse il buttafuori del locale dove ci sta portando, barcollando attraverso la città calata in una notte ricca di luci abbaglianti, come la terra promessa per balordi che cercano di sfuggire al buio delle loro vite (“Hit the city”). E in mezzo a questo vagare disperato c’è il tempo di fare una promessa d’amore (“Wedding dress”): un amore basso, un amore ubriaco, che brucia il tempo di una notte dentro la stanza sporca di un motel, prima che il giorno costringa i diseredati a nascondersi nei bassifondi, come scarafaggi (“the end could be soon, so you’d better rent a room / so you can love me”). C’è l’orrore della violenza in “Methamphetamine blues”, cruda e atroce dentro questa notte senza luna: l’effetto delle metamfetamine rende lo stupro una dolce necessità sacra e l’eccitazione drogata spinge a gridarlo come si grida nel subirlo (“I don’t wanna leave this heaven so soon”), porta a quella zona grigia dove le vittime si confondono con i carnefici.

Una calma tremenda allora cala su questa notte, il sogno di un’illusione, l’allucinazione placida della morfina, di cui neppure si ha ricordo di averla iniettata, il tempo si dilata così come lo spazio (“One hundred days”) e qualcosa di buono, di puro deve pur essere preso da tutto questo per riuscire a sopravvivere ancora nella depravazione della realtà (“There is no crime to dreams like this / And if you could take something with you / It would be bright / Just like something good”).

Ma tutto ciò che del sogno sopravvive a questa perversa realtà è una litania, una ninnananna per amanti dannati (“Bombed”), una confessione dell’uno tra le braccia morenti dell’altra, composta dai loro respiri che cercano invano di raggiungersi, dalle loro voci che si scontrano, come onde sulla riva di un mare illuminato dalla luna. Ma il vagare disperato del balordo si trasforma in una fuga sui sedili di un’auto lanciata a folle velocità: c’è del sangue che sgorga dalla ferita d’arma da fuoco aperta nella carne, si annebbia la vista, tanto da non riuscire a vedere la strada che scorre, e da essa riemerge l’immagine dolce di un amore materno che rivela la sacralità del mondo e permette al peccatore di pentirsi dei suoi atroci peccati (“Strange religion”). In “Sideways in reverse” ritorna la violenza, questa volta ha il ritmo confuso e cinico di un “trip” adrenalinico (“C'mon now honey you're so sick and pretty / C'mon now sugar 'cause you know it ain't easy / Bang bang bang let me shoot it all over / Go down people give me your love”) che quasi subito si esaurisce tra le pareti di una stanza in fiamme (“Come to me”): tra la tosse e il rumore impercettibile degli oggetti che si fanno cenere, emerge la voce della sua donna che risponde alla sua debole preghiera, “vieni da me, anche se è troppo tardi” (“You've just now gone, as I arrive / At every station / Come to me / Either early or late”).

Like little Willie John” è un mariachi a cantarla, sulla soglia tra la notte e le prime luci dell’alba, un cantastorie che chiede qualche spicciolo per bagnare la gola dentro il saloon di un paese disperso da qualche parte nel vecchio west, ma questi ha ancora il volto del balordo e sembra cantare la vita di un altro uomo, morto tanto tempo prima, per trovare la propria, nella quale non sa più dove né perché stia correndo, da cosa stia scappando né perché non possa fermarsi (“All I got today is some sweet nothing / Nothing to take away / Don't know why I just keep running / Don't know why I can't come down”). Ma ormai la parabola è discendente, ormai i raggi del primo sole si levano sul suo viso e l’eccitazione di una notte tossica sfocia in un’atroce dolore che invade il corpo e l’anima, lo costringe a un lamento pronunciato con un filo di voce che implora di non giudicarlo se cerca di alleviarlo con del vino, perché presto sarà giudicato da chi di dovere (“Morning glory wine”).

E quando trova finalmente la forza di alzarsi dal letto c’è ancora del sangue al suo fianco, secco, ma non è il suo: tra le lenzuola la testa della sua donna staccata dal corpo, senza sapere come, senza sapere perchè (“So sad the girl I had / Lost her head and it went bad / Blue her two eyes they were dead”), non riesce a spiegarselo mentre corre con la sua auto verso la gola dove getterà quel corpo (“Driving Death Valley blues”), mentre uccelli neri cantano facendo ombre dal sole del mattino. Lievi accordi di uno sporco flamenco aprono lo spazio ad una voce stanca, rauca ma placida, quasi piangente: vuole dimenticare la follia di una notte, spera che tutto si risolva nell’oblio, che un giorno potrà guardare a questa assurdità come un sogno, poco più di un vago incubo, un giorno in cui sarà finalmente lontano da questo luogo impossibile, “Out of nowhere”.   

Bubblegum” è un disco sottovalutato. Troppo spesso si pesa il lavoro di un artista attraverso la sua opera precedente e troppo spesso questo peso diventa insopportabile. Il passato di Mark Lanegan è molto pesante: dischi come “The winding sheet”, “Whiskey for the holy ghosts” e “Scraps at midnight” sono opere di valore assoluto, in più la collaborazione con i Queens of the stone age, il passato con gli Screaming threes, non sono un fardello facile da portarsi sulle spalle.

Ma in questo album c’è qualcosa di innovativo, qualcosa che, seppure con non poca difficoltà, emerge per distinguerlo dalle esperienze passate: l’atmosfera è rarefatta come nei dischi precedenti, i testi sono ancora più crudi, cinici, eppure, in mezzo a questa perversione portata all’eccesso, si leva in un contrasto sublime la voce di PJ Harvey, che apre un’esperienza unica nella quale una pura sacralità scende per mischiarsi col profano, per lasciarsi invadere, violare, sedurre da esso, come un bagliore caldo e accogliente che illumini i bassifondi macchiandosi del loro smog.

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Ipomea alle 21:09 del 6 marzo 2010 ha scritto:

Sto seguendo questo autore con interesse. Tuttavia mi ricorda talmente tanto chris rea che a volte mi innervosisco.

Ottima analisi comunque. Condivido in pieno per questo album.