Gutter Twins
Saturnalia
“Sottile come veleno e ardente come lava / e raro, il sangue cola e circola nelle vene / riducendo in cenere il loro triste ideale / Così devono vivere e soffrire i Saturnini, così / morire – ammesso che noi siamo mortali- / poiché il corso della loro vita è disegnato / linea per linea, dalla logica d’un influsso maligno” (Paul Verlaine)
I Saturnali erano ricorrenze propiziatorie che inoculavano nello jus romano una salutare dose di caos e di eversione. Durante i festeggiamenti pertanto ogni gerarchia era abolita: gli schiavi potevano considerarsi uomini liberi, i patrizi erano scherniti con una parata di buffe maschere allegoriche. Le divinità inferiche marciavano sulla terra che riposava incolta sotto i rigori di dicembre e solo un’adeguata profferta di doni avrebbe placato questo minaccioso corteo inducendolo a ritornare nell’aldilà da dove avrebbe favorito i raccolti della stagione estiva. In epoca cattolica, viceversa, l’avvento di Saturno ha assunto una accezione via via più negativa, al punto da divenire una sorta di maligna facie che esprimeva tutti gli istinti più bradi e disinibiti. Quasi una barbarica prefigurazione degli orrori che sottendono l’Apocalisse e precedono il Giudizio Divino.
Ad uno scenario esistenziale cupo e disfatto, alla tragica e vertiginosa ebbrezza d’un sistema di valori rivoltato, di certo fanno riferimento anche i Gutter Twins, giunti al loro primo e fatidico album, la cui data di registrazione, neanche a farlo apposta, cadeva in pieno solstizio d’inverno (i saturnali imperversavano dal 17 al 23 dicembre). Nel frattempo, alla collaborazione fra Greg Dulli e Mark Lanegan, erano state appioppate le definizioni più entusiastiche e/o fantasiose: da “due dei più grandi frontmen del rock alternativo” a “Everly Brothers satanici” (come se già non bastasse l’implicita storpiatura dei “Glitter Twins”, alias Jagger & Richards).
Beh, visto che in altre sedi, presumibilmente, si sprecheranno le sviolinate, da queste parti preferiamo andare per le spicce: la buona notizia è che in Saturnalia troverete più o meno tutto quello che uno s’aspetta da Greg & Mark, quella cattiva è che se dei due gemelli conoscete ormai tutto vi conviene ripiegare i vostri biglietti da 10 euro esattamente dove li avevate spillati, nel borsellino della nonna. Insomma: niente che un Nick Cave, tanto per fare un nome, non abbia già detto (molto meglio) altrove. Le canzoni sono belle (alcune più di altre, com’è naturale) e dal vivo (presto anche in Italia), c’è da scommetterci, potrebbero fare della vostra spina dorsale un’autostrada di brividi; la morfologia del loro sound non si discosta molto dalle premesse storiche: la Santa Barbara accumulata fra le due guerre (country, blues, soul) è incendiata nella camera di scoppio dell’era pre globale e post industriale (grunge, indie rock, “cantautronica”). Inoltre: la band è affiatata, la divisione dei ròle vocali equa e rispettosa, le ospitate di lusso (Martina Topley-Bird e il “genietto” Joseph Arthur) pleonastiche o inintelligibili.
I vaticinanti sermoni “country-noir” di Lanegan: The Stations (midtempo grunge/gospel con modanature gotiche e una mezza citazione di Cobain, “I don’t know what i mean and i say…ah…”), All misery / Flowers (uno dei brani migliori del lotto: uno shuffle/down tempo su giri dispari infestato da filari noise, blandi rumori industriali, oltre che dal fantasma di Nina Simone, “Would you leave me alone / My sweet Simone”) e Bète noir. Gli annoiati lamenti da boudoir e le glaciali ascensioni filarmoniche di Dulli: God’s children (progressione ritmica alla Sunday bloody Sunday su si eleva una preghiera beffarda stile 1965), Circle in the fringes (ouverture da camera per linee armonico/acustiche trafitte da schegge ambient/drone e tradotte da rullate spigolose verso il climax chitarristico/orchestrale della seconda parte), Front street (il suo brano migliore: un picking gotico, spinato di feedback e vibrato in un crescendo che raggiunge vette degne del Reed di Berlin).
La parentesi elettronica, pur senza mai raggiungere la destrezza dei Soulsavers, sboccia nei frutti agri di The body (inno pentecostale che risuona nell’eco di una navata folk-tronica), Seven stories underground (gospel lo fi-tronico e bossanova), I was in love with you (dowtempo claustrale per un duetto quasi glam) e Each to each (upbeat electro-glitch con bordate di chitarra a loop).
I rocker “senza se e senza ma” possono sempre consolarsi con l’hard rock gargantuesco di Idle Hands, riffone tamarro incastonato fra un carme industriale e un accompagnamento d’archi.
Pur essendo “l’età dell’oro” piuttosto lontana, non è detto che, data la clemenza delle messi, il duo Dulli-Lanegan non possa, nei cuori che li ammirano, usurpare, ridendo, i doni destinati al Dio Saturno.
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