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R Recensione

7,5/10

Giardini di Mirò

Rapsodia Satanica

A costo di radicalchicchizzarmi, postulerò quella che per me è una grande verità. Esistono due diversi collettivi musicali che rispondono al nome di Giardini di Mirò. Il primo scrive dischi originali – si intende, prive di un posticcio filo conduttore alle spalle – e, nonostante il beneplacito generale, è poco più che mediocre in studio e pessimo dal vivo. Il secondo è allergico alla mondanità, parcellizza le sue apparizioni, lesina scientemente l’attività: eppure – o, forse, proprio grazie a questo – scrive colonne sonore originali bellissime, fedelmente riprodotte live, per fascinose pellicole d’essai vecchie di novanta, quando non cent’anni. L’abisso che separa la sonorizzazione de “Il Fuoco” (Giovanni Pastrone, 1915) dagli autografi canonici di “Dividing Opinions” (volevo sparare alto con “Rise And Fall Of Academic Drifting”, ma avrei probabilmente scatenato polemiche inutili), detta altrimenti, è lo stesso che impedisce ad un Andrea De Carlo qualunque di essere Stefano Benni. E si capisce: la cellula marxista di Jukka Reverberi sembra essere nata per vivere di cinema, per firmare nella celluloide il riscatto di una carriera altrimenti modesta e passatista. Se l’eccezione conferma la regola e più indizi sommati assieme totalizzano una certezza, è il caso di dirlo: che gran disco, “Rapsodia Satanica”.

Che gran disco, già. Possiamo solo immaginare, d’altro canto, quanto le tinte rossastre e gli specchi deformanti del mediometraggio dell’ardito Nino Oxilia (calembour a parte, pace all’anima sua) abbiano stimolato l’immaginazione del sestetto cavriaghese: quanto il ghigno sensuale e beffardo di Lyda Borelli, immensa protagonista di quest’epopea faustiana tardo-aristocratica in salsa tricolore, abbia aleggiato, totem raffinato e dimenticato, sulla scrittura del gruppo. A differenza de “Il Fuoco”, inoltre – non conteremo il postumo accompagnamento pianistico di Stefan Ram –, “Rapsodia Satanica” una colonna sonora ce l’aveva già, e di tutto rispetto: una partitura romantica per storture orchestrali, a firma di Pietro Mascagni, letteralmente tempestata di note. Ai Giardini di Mirò, dunque, spetta l’oneroso compito non solo di commentare, ma di risemantizzare una pellicola semioticamente ben orientata – non lo si prenda come slancio titanico o snobismo elitario: in Italia similmente fecero già i Massimo Volume (The Fall of the House of Usher) e gli OvO (Nosferatu) tra gli altri, senza timore alcuno e ottenendo eccellenti risultati.

(Relativamente) post rock, allora. Stilisticamente così canonici nel proprio (ed in questo non dissimili da ben altri pezzi da novanta, i Goblin, che al di fuori del celeberrimo “Bagarozzo” non seppero confermare manu propria la miracolosa alchimia delle soundtrack settantine), i Giardini di Mirò non hanno paura di abbattere barriere quando si tratta di ridare dinamismo ad immagini consunte. In un circolo tematico che prende corpo con sistole ed extrasistole impiegate come primigenia base ritmica, e si consuma nel rintoccare solenne di una campana funebre, va in scena una suite suddivisa, per amore d’attenzione e consequenzialità, in capitoli. “I”, inizialmente, non sembra promettere miracoli: riverberi surf-blues à la Lee Hazlewood ed insistiti slintiani, come dei Ronin di Louisville, Kentucky, si alternano con grazia slowcore, fino a convergere in un plumbeo scorcio post-punk che scombina – e non poco – le esigue carte in tavola. Già “III” fa intravedere scorci inconsueti, con indolenti progressioni su pentatonica filtrate attraverso un velo di sudore acido: un clavicembalo sintetico, in “VII”, intreccia poi un barocco sirtaki d’altri tempi, inghirlandato con una palpitante strenna Constellation d’archi e tremoli chitarristici (tant’è che non è difficile immaginarsi la giovinezza della protagonista che si sbriciola al vento, appassita come un vecchio album fotografico). Da qui in avanti l’umore cambia sensibilmente. Se “XIII”, persa nelle stratificazioni strumentali, viene caricata a molla da un carillon decadente, “XVII” è, sorprendentemente, un’eccellente prova new wave, con il basso a coordinare gli incastri ritmici, la chitarra a contrappuntare Interpol e marosi di fiati a risalire periodicamente la china – l’accostamento sinestetico riesce magnificamente e il paragone coi Jaga Jazzist, già proposto per “Il Fuoco”, ancora si impone. “XXI” è la sfaldatura conclusiva, i titoli di coda, dove feedback e lugubri corali intonano una geremiade shoegaze destinata ad essere inghiottita dal solo silenzio.

Dell’album verrà pubblicata una versione in vinile rosso 180 grammi + cd limitata a sole 500 copie. Per quel che può contare il parere di chi scrive, varrebbe la pena averla.

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target alle 12:51 del 29 agosto 2014 ha scritto:

Ascolterò per bene, molto curioso. Il film lo vidi con sopra Mascagni: tutto il decadentismo liberty marcio che stava per esplodere in guerra. Si può vedere qua: