Motorpsycho
The Crucible
Si ama di più coltivando la difficile arte dellonestà ad ogni costo o preferendo le lusinghe della bugia bianca? Domanda complessa, forse irrisolvibile, dalla cui risposta potrebbero germinare due antitetici commenti a margine al ventunesimo disco in studio dei Motorpsycho, The Crucible. Per chi scrive, e non è un mistero, il triumvirato di Trondheim rappresenta forse lultimo e certo più totalizzante caso di passione nei confronti di un gruppo rock, qualsiasi cosa possa voler dire nel 2019. È la magia di unassoluta interconnessione (cerebrale, emozionale, istintiva) che spinge a vivere dentro ogni canzone, a cercare i rimandi interni tra unepoca e laltra, a interiorizzare decine e decine di linee melodiche e a leggere trentanni di gloriosa carriera come step successivi di ununica ed entusiasmante parabola evolutiva. Si dovrebbe mentire per salvare le apparenze? Così facendo, però, si tradirebbe la sostanza: peccato ben più grave, cui forse non conviene abbassarsi.
Il fatto è semplice: con la virtuosa eccezione di Behind The Sun, la loro migliore prova del decennio (e, come tale, non a caso criminosamente sottovalutata), ascoltare allopera i Motorpsycho degli anni 10 ha cominciato a produrre il sempre crescente effetto della variazione su tema, quasi come se ogni tappa fosse un isolato frammento di un blocco ben più massiccio ed imponente. Così, anche se The Crucible non condivide la smisurata (e logorroica) ambizione formale del precedente doppio The Tower, ne costituisce senzaltro la continuazione stilistica più immediata, la più vicina esplorazione sonica, che riconferma le variabili Tomas Järmyr (alla seconda prova lunga dietro le pelli), Deathprod (nuovamente alla produzione) e Håkon Gullvåg (cui si devono, dopo quelle di The Tower, anche le inquietanti suggestioni pittoriche di questa cover, un lavoro intitolato Egypts Hær Drukner).
Aldilà della vexata quaestio sulla difficoltà di coesistenza di funambolismo e sentimentalismo, lapprezzamento estetico per i Motorpsycho musicisti (leggi: compositori, arrangiatori, strumentisti) non può che crescere di disco in disco, insieme allinarrestabile innalzarsi dellasticella tecnica che, qui, imprime le proprie orme soprattutto sulla strutturazione e sullesecuzione del solismo chitarristico. Nulla di nuovo sotto il sole: e difatti i primi due brani, per quanto buoni, non stupiscono affatto. La cosa più interessante dellhard rock sabbathiano di Psychotzar, oltre ad uno straripante Hans Magnus Snah Ryan, è la limacciosa coda teatrale, che detona tra clangori di mellotron e sovraincisioni di fiati. Per quanto pomposa e un filo troppo crimsoniana (cè tutto The Court Of The Crimson King nel chorus polifonico), apertura e chiusura di Lux Aeterna, un tentativo di ballata acustica per loner cullata dallinconfondibile voce di Bent Sæther, scaldano il cuore e riportano indietro di almeno venticinque anni: la patina della nostalgia viene poi devastata da unaggressiva e dissonante sezione centrale, unurticante sventagliata di tritoni noise condotta a velocità serrata e a volumi insostenibili (bipolarità lunica realtà). I nodi vengono al pettine allapprocciarsi della title track, un mastodonte di oltre venti minuti che sembra girare infinite volte su sé stesso senza finire mai: un po cavalcata sonica à la Little Lucid Moments, un po sinfonia crepuscolare, un po diario esistenziale (si risentono i cupi semitoni di Un Chien DEspace nei gorghi chitarristici della seconda metà) e un po persino opera prog. Inutile dirlo, tanto ecumenismo finisce per affondare irreparabilmente la barca: la continuità si perde già alla boa dei dieci minuti e quello che rimangono sono macerie fumanti, avanzi indigesti.
Chi vuol essere onesto sia, allora: The Crucible è un disco modesto, che dal vivo riusciremo a farci piacere senza troppo sforzo, ma che per (quasi) tutto il resto è decisamente trascurabile. Con amore.
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