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R Recensione

6/10

Motorpsycho

The Crucible

Si ama di più coltivando la difficile arte dell’onestà ad ogni costo o preferendo le lusinghe della bugia bianca? Domanda complessa, forse irrisolvibile, dalla cui risposta potrebbero germinare due antitetici commenti a margine al ventunesimo disco in studio dei Motorpsycho, “The Crucible”. Per chi scrive, e non è un mistero, il triumvirato di Trondheim rappresenta forse l’ultimo e certo più totalizzante caso di passione nei confronti di un gruppo rock, qualsiasi cosa possa voler dire nel 2019. È la magia di un’assoluta interconnessione (cerebrale, emozionale, istintiva) che spinge a vivere dentro ogni canzone, a cercare i rimandi interni tra un’epoca e l’altra, a interiorizzare decine e decine di linee melodiche e a leggere trent’anni di gloriosa carriera come step successivi di un’unica ed entusiasmante parabola evolutiva. Si dovrebbe mentire per salvare le apparenze? Così facendo, però, si tradirebbe la sostanza: peccato ben più grave, cui forse non conviene abbassarsi.

Il fatto è semplice: con la virtuosa eccezione di “Behind The Sun”, la loro migliore prova del decennio (e, come tale, non a caso criminosamente sottovalutata), ascoltare all’opera i Motorpsycho degli anni ’10 ha cominciato a produrre il sempre crescente effetto della variazione su tema, quasi come se ogni tappa fosse un isolato frammento di un blocco ben più massiccio ed imponente. Così, anche se “The Crucible” non condivide la smisurata (e logorroica) ambizione formale del precedente doppio “The Tower”, ne costituisce senz’altro la continuazione stilistica più immediata, la più vicina esplorazione sonica, che riconferma le variabili Tomas Järmyr (alla seconda prova lunga dietro le pelli), Deathprod (nuovamente alla produzione) e Håkon Gullvåg (cui si devono, dopo quelle di “The Tower”, anche le inquietanti suggestioni pittoriche di questa cover, un lavoro intitolato Egypt’s Hær Drukner).

Aldilà della vexata quaestio sulla difficoltà di coesistenza di funambolismo e sentimentalismo, l’apprezzamento estetico per i Motorpsycho musicisti (leggi: compositori, arrangiatori, strumentisti) non può che crescere di disco in disco, insieme all’inarrestabile innalzarsi dell’asticella tecnica che, qui, imprime le proprie orme soprattutto sulla strutturazione e sull’esecuzione del solismo chitarristico. Nulla di nuovo sotto il sole: e difatti i primi due brani, per quanto buoni, non stupiscono affatto. La cosa più interessante dell’hard rock sabbathiano di “Psychotzar”, oltre ad uno straripante Hans Magnus “Snah” Ryan, è la limacciosa coda teatrale, che detona tra clangori di mellotron e sovraincisioni di fiati. Per quanto pomposa e un filo troppo crimsoniana (c’è tutto “The Court Of The Crimson King” nel chorus polifonico), apertura e chiusura di “Lux Aeterna”, un tentativo di ballata acustica per loner cullata dall’inconfondibile voce di Bent Sæther, scaldano il cuore e riportano indietro di almeno venticinque anni: la patina della nostalgia viene poi devastata da un’aggressiva e dissonante sezione centrale, un’urticante sventagliata di tritoni noise condotta a velocità serrata e a volumi insostenibili (bipolarità l’unica realtà). I nodi vengono al pettine all’approcciarsi della title track, un mastodonte di oltre venti minuti che sembra girare infinite volte su sé stesso senza finire mai: un po’ cavalcata sonica à la “Little Lucid Moments”, un po’ sinfonia crepuscolare, un po’ diario esistenziale (si risentono i cupi semitoni di “Un Chien D’Espace” nei gorghi chitarristici della seconda metà) e un po’ persino opera prog. Inutile dirlo, tanto ecumenismo finisce per affondare irreparabilmente la barca: la continuità si perde già alla boa dei dieci minuti e quello che rimangono sono macerie fumanti, avanzi indigesti.

Chi vuol essere onesto sia, allora: “The Crucible” è un disco modesto, che dal vivo riusciremo a farci piacere senza troppo sforzo, ma che per (quasi) tutto il resto è decisamente trascurabile. Con amore.

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C Commenti

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zagor (ha votato 7 questo disco) alle 13:18 del 26 febbraio 2019 ha scritto:

Curioso di ascoltarlo, certo che tre soli brani fanno pensare a un mattonazzo prog lol. Marco sempre piu' enciclopedico.

Marco_Biasio, autore, alle 13:39 del 26 febbraio 2019 ha scritto:

La title track è piuttosto pesantina IMHO. Comunque ce l'hai già tutto qui sopra, se vuoi. Grazie del passaggio e dei complimenti

zagor (ha votato 7 questo disco) alle 10:48 del 27 febbraio 2019 ha scritto:

mi è piaciuto dai, con il giochino dei riferimenti che loro tanto amano si potrebbe dire che suona come "dark side of the moon" rifatto dai Black Sabbath. Niente di sconvolgente nella loro discografia, ma pollice in alto per me.