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R Recensione

7/10

Cave In

Final Transmission

Una pennata che cala materica sulle corde di una chitarra acustica ribassata. Il disegnarsi di una semplice ma emozionale melodia novantiana, qualcosa che sembra stare tra Minerals, Smashing Pumpkins e Motorpsycho. Una morbida lallazione, nel flusso degli arpeggi. L’assorto borbottio appartiene a Caleb Scofield, bassista di Cave In e Old Man Gloom, deceduto in un terribile incidente stradale nel marzo del 2018, ad appena trentanove anni. “Final Transmission”, ad insaputa del suo creatore, ne è la toccante eulogia: il suo ultimo, inconsapevole saluto al mondo terreno, un commiato sincero in forma di demo.

Esistono molti modi per metabolizzare un lutto così radicale ed abbandonarsi alla catarsi: ognuno fa storia a sé. Il triste destino di Scofield, se ci si astrae dal paragone più ovvio (quello con la strada ghiacciata di Kronoberg che ingoiò la giovanissima vita di Cliff Burton), ricorda da molto vicino – per dinamiche, età e professione – quello toccato in sorte a Chi Cheng dei Deftones poco più di dieci anni fa. Al tempo la band guidata da Chino Moreno reagì d’imperio: i lavori sul disco per cui stava scrivendo e registrando i pezzi vennero congelati (ancora oggi “Eros” rimane un album fantasma, che non vedrà probabilmente mai la luce) e il processo di composizione ripartì da capo, consegnandoci l’obliquo e sofferto “Diamond Eyes”. Immersi nel processo che avrebbe dovuto consegnarci il successore del mediocre “White Silence” (2011), anche i Cave In hanno deciso di contrattaccare, rielaborare e dare forma compiuta agli abbozzi proposti da Scofield, riempiendo i vuoti e inventando un immaginario sonoro per brani che ne erano quasi del tutto privi.

Quello che nasce non è un capolavoro (anche perché, a detta di chi scrive, i Cave In non ne hanno mai scritto uno), ma una testimonianza, forse l’ultima, intessuta di carne e innervata di sangue, priva di sovrastrutture (anche nella durata: poco più di mezz’ora) e brutalmente onesta con sé stesso. Sorge l’alba di una pagina diaristica che, se è difficile concettualizzare disgiunta dalle circostanze che ne hanno giustificato l’esistenza, cionondimeno possiede una sua pervicace e solida dignità. I ragazzi degli anni ’90 – ma non solo loro – si sentiranno stringere le ganasce al cuore seguendo la scia dell’epica e struggente melodia di “Shake My Blood”: le Cassandre della critica si troveranno nella condizione di adorare lo space-gaze di “Lunar Day”; i nostalgici del rumore che fu drizzeranno le antenne sulle sature convulsioni noise di “Led To The Wolves” (brano, questo, interamente a nome di Scofield). In generale, comunque, tolto qualche calligrafismo di maniera (“Strange Reflection”, per chi scrive), “Final Transmission” è davvero un disco di buon livello, ricco di momenti degni di essere ricordati: su tutti, il ruvido neoprog di “Winter Window” (con qualcosa dei primi Biffy Clyro), l’affilato post-core orientaleggiante di “Night Crawler” e la raffinata space-wave di “All Illusion”.

Se queste fossero davvero le battute conclusive della storia dei Cave In, un plauso d’obbligo vada al titolista. Un regalo, forse insperato, per Caleb Scofield e per tutti noi.

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zagor alle 12:57 del 24 luglio 2019 ha scritto:

che bella pagina, marco. loro davvero una grande band, non conosco a fondo la loro discografia ma "Jupiter" basta e avanza, i Rush che scoprono il post hardcore, l'alternative metal e l'emo. Ripasso per un commento piu' articolato sul disco.