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R Recensione

6,5/10

Mogwai

Every Country's Sun

Non importa quanto solide ed incorruttibili siano le buone intenzioni di chi scrive: ogni sguardo critico sui Mogwai, presto o tardi, è destinato a sfociare storicamente in interminabili dissertazioni su pregi e difetti del post rock, spesso dimenticando che è il gruppo a fare il genere (ma che genere, ormai?) e non il contrario. Immaginatevi il tenore dei discorsi, poi, a proposito di “Every Country’s Sun”, un disco che le recensioni elettroniche e cartacee in giro per il mondo – pur esprimendosi a vario titolo e in vario modo sulla sua effettiva qualità – non esitano a definire come il più “classico” della ventennale carriera degli scozzesi. “Classico”, nel dato contesto, non è tanto o solo sinonimo di “rappresentativo”: si sottintende proprio la sua intrinseca fedeltà al post rock. Qui l’uroboro, com’è facile intuire, torna ad addentarsi la coda: cosa vuol dire post rock? Esiste ancora? Ha senso continuare a parlarne?

Il nono lavoro lungo in studio dei Mogwai, prima raccolta di inediti da “Rave Tapes” del 2014 (se si escludono la soundtrack di “Atomic” e il curioso esperimento collettivo per la sonorizzazione dell’acclamato documentario Before The Flood, entrambe produzioni dello scorso anno), nasconde nel suo cuore dei preziosi indizi. Uno di questi, per chi è appassionato di minuzie formali, siede dietro il mixer e porta il nome di David Fridmann – una collaborazione che mancava all’appello dal celeberrimo “Rock Action” e che, come tale, parla da sola: meno elettronica, meno krautismi, a dispetto della (non più) recente defezione di John Cummings. Un altro, più concreto, sull’eterno e stereotipico ritorno di yin e yang, ha precisamente a che fare con un contrasto: la distanza incolmabile che divide, eppure unisce, la synth-wave solare di “Party In The Dark” (Stuart Braithwaite in versione Tom Smith: interessante assai) dalle marcate distonie che piagano la massiccia andatura post-core – non priva di un certo trionfante melodismo – di “Old Poisons” (ode ai ciuffi spazzolati all’ultimo Primavera). Detto sinceramente, una delle più riuscite contrapposizioni della discografia del quartetto di Glasgow.

Tutto entra a far parte di un’unica narrazione. Tutto serve. Tutto ha il proprio peso specifico. Abbracciare un oceano: una promessa salomonica quanto si vuole, ma mantenuta sino in fondo. Ecco, allora, la classicità di “Every Country’s Sun”: l’arte della coesistenza, la maestria dell’eterogeneità. Il che spiega perché, in definitiva, i Mogwai debbano ancora trovare dei degni successori o, in alternativa, chi riesca a batterli sul loro stesso terreno. C’è ancora qualcosa di magico, dopo tutto questo tempo, nelle risapute progressioni strumentali del gruppo: un dono naturale, floydiano, di sapere sempre infilare la nota giusta nel momento giusto. Basta la scenografica entrata in scena del basso di Dominic Aitchison, in una “Coolverine” a lenta carburazione, per consacrare il brano allo status di instant classic. La costruzione di “Crossing The Road Material”, più laboriosa e progressiva, tende ad indugiare eccessivamente in rumorosi fasti chitarristici (quasi ad anticipare il mood della seconda parte che verrà, dall’inesorabile marea montante di “Don’t Believe The Fife” alle ruggenti distorsioni angolari di “Battered At A Scramble”), indovinando però la delicatissima coda in decrescendo. È un invito a nozze raccolto da un intenso spaccato di isolazionismo cripto-carpenteriano (“Aka 47”), che in “20 Size” diventa blues terminale à la For Carnation (superbi i cerimoniosi piatti sospesi di Martin Bulloch) e in “1000 Foot Face” eterea e volatile sostanza ambient pop (ancora la voce di Braithwaite, per l’ultima volta).

La chiusura, affidata ai minimali tocchi post metal della title track (un gancio, finanche involontario, ai Russian Circles?) è, nel suo estremo sincretismo, ecumenica: il sole che splende sulla galassia dei Mogwai ha compiuto la sua rivoluzione ed è tornato al suo posto, più forte di prima. Possa illuminarci ancora per innumerevoli anni.

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