Mogwai
Every Country's Sun
Non importa quanto solide ed incorruttibili siano le buone intenzioni di chi scrive: ogni sguardo critico sui Mogwai, presto o tardi, è destinato a sfociare storicamente in interminabili dissertazioni su pregi e difetti del post rock, spesso dimenticando che è il gruppo a fare il genere (ma che genere, ormai?) e non il contrario. Immaginatevi il tenore dei discorsi, poi, a proposito di Every Countrys Sun, un disco che le recensioni elettroniche e cartacee in giro per il mondo pur esprimendosi a vario titolo e in vario modo sulla sua effettiva qualità non esitano a definire come il più classico della ventennale carriera degli scozzesi. Classico, nel dato contesto, non è tanto o solo sinonimo di rappresentativo: si sottintende proprio la sua intrinseca fedeltà al post rock. Qui luroboro, comè facile intuire, torna ad addentarsi la coda: cosa vuol dire post rock? Esiste ancora? Ha senso continuare a parlarne?
Il nono lavoro lungo in studio dei Mogwai, prima raccolta di inediti da Rave Tapes del 2014 (se si escludono la soundtrack di Atomic e il curioso esperimento collettivo per la sonorizzazione dellacclamato documentario Before The Flood, entrambe produzioni dello scorso anno), nasconde nel suo cuore dei preziosi indizi. Uno di questi, per chi è appassionato di minuzie formali, siede dietro il mixer e porta il nome di David Fridmann una collaborazione che mancava allappello dal celeberrimo Rock Action e che, come tale, parla da sola: meno elettronica, meno krautismi, a dispetto della (non più) recente defezione di John Cummings. Un altro, più concreto, sulleterno e stereotipico ritorno di yin e yang, ha precisamente a che fare con un contrasto: la distanza incolmabile che divide, eppure unisce, la synth-wave solare di Party In The Dark (Stuart Braithwaite in versione Tom Smith: interessante assai) dalle marcate distonie che piagano la massiccia andatura post-core non priva di un certo trionfante melodismo di Old Poisons (ode ai ciuffi spazzolati allultimo Primavera). Detto sinceramente, una delle più riuscite contrapposizioni della discografia del quartetto di Glasgow.
Tutto entra a far parte di ununica narrazione. Tutto serve. Tutto ha il proprio peso specifico. Abbracciare un oceano: una promessa salomonica quanto si vuole, ma mantenuta sino in fondo. Ecco, allora, la classicità di Every Countrys Sun: larte della coesistenza, la maestria delleterogeneità. Il che spiega perché, in definitiva, i Mogwai debbano ancora trovare dei degni successori o, in alternativa, chi riesca a batterli sul loro stesso terreno. Cè ancora qualcosa di magico, dopo tutto questo tempo, nelle risapute progressioni strumentali del gruppo: un dono naturale, floydiano, di sapere sempre infilare la nota giusta nel momento giusto. Basta la scenografica entrata in scena del basso di Dominic Aitchison, in una Coolverine a lenta carburazione, per consacrare il brano allo status di instant classic. La costruzione di Crossing The Road Material, più laboriosa e progressiva, tende ad indugiare eccessivamente in rumorosi fasti chitarristici (quasi ad anticipare il mood della seconda parte che verrà, dallinesorabile marea montante di Dont Believe The Fife alle ruggenti distorsioni angolari di Battered At A Scramble), indovinando però la delicatissima coda in decrescendo. È un invito a nozze raccolto da un intenso spaccato di isolazionismo cripto-carpenteriano (Aka 47), che in 20 Size diventa blues terminale à la For Carnation (superbi i cerimoniosi piatti sospesi di Martin Bulloch) e in 1000 Foot Face eterea e volatile sostanza ambient pop (ancora la voce di Braithwaite, per lultima volta).
La chiusura, affidata ai minimali tocchi post metal della title track (un gancio, finanche involontario, ai Russian Circles?) è, nel suo estremo sincretismo, ecumenica: il sole che splende sulla galassia dei Mogwai ha compiuto la sua rivoluzione ed è tornato al suo posto, più forte di prima. Possa illuminarci ancora per innumerevoli anni.
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