Xabier Iriondo
Irrintzi
LIriondo prodigo. Quello che lavora nellombra e tesse uno, dieci, cento fili, una ragnatela, un insieme di ragnatele. Dove passa lui, non crescerà più lerba ma, in compenso, fioriscono le collaborazioni. Produce, suona e scrive con tutti: (Damo Su)Zu(ki), gli OvO, ?aloS. Ritorna dopo più di dieci anni in seno alla band madre, finita in mezzo ad una terribile secca creativa con la pubblicazione del pessimo I milanesi ammazzano il sabato, ed ecco che (ri)nasce la poetica sgraziata, maligna, dissonante dei primi Afterhours, cullata peraltro da una maturità espressiva che prima veniva difficile riscontrare. Poi arriva il disco solista, primo in una carriera ventennale (!), quellIrrintzi che è omaggio alla cultura basca di provenienza, omaggio alle pietre miliari degli ascolti della propria adolescenza e non solo, immaginiamo , omaggio ai finti ossequianti che fintamente omaggeranno a loro volta ciò che non può essere omaggiato: un doppio vinile che accoglie, da un lato, quattro brani originali, e dallaltro lascia sprigionarsi cinque cover che sono manifesto di sfrontatezza, vitalità, integrità intellettuale ed artistica.
Descrivere, già ma cosa descrivere, nello specifico? Ad ogni brano Xabier lega indissolubilmente una cartolina: unimmagine, una riduzione visiva della complessità strategica emanata a tratti, evocata più spesso da Irrintzi. E finisce che le cover non siano poi davvero cover, tale è il livello di imbruttimento e destrutturazione alla quale sono condotte, come agnelli (giochino ) al macello. Il solo groove incandescente di The Hammer, spettacolare sintesi dello spirito Motörhead che chiudeva lispiratissimo Ace Of Spades del lontano 1980, si rende immediatamente e tangibilmente riconoscibile, nonostante il rimbombare di sorde percussioni e lassaltare di poltiglia noise monti sul ringhio sacrale della sempre impeccabile Stefania Pedretti, chiamata assieme al provvidenziale Bruno Dorella ad incarnare il non semplice ruolo di Lemmy della situazione. In molti casi la scelta delle reinterpretazioni, che in mano daltri potrebbe aspirare al più a lambire il vasto oceano del weirdismo, assume connotati assai più sfumati e disturbanti. Cold Turkey è John Lennon di seconda fascia e di pregiata annata, misconosciuto ai più perché dolorosamente (o sarcasticamente? Le sfaccettature del testo sono variamente interpretabili ) alle prese con la propria disintossicazione dalleroina: dal rehab fisico alla saturazione sonora, che gira su di un acido perno di chitarra iterato con melodia rnr e insistenza kraut, sino al dissolversi di strofe e ritornelli nel clangore conclusivo. Reason To Believe, da Nebraska di Bruce Springsteen, muta lacustica americana in ossessivo gancio industrial sul quale veleggia paradossalmente la voce filtrata, di velluto, di Paolo Saporiti (al quale, bene sottolinearlo, Iriondo ha curato gli arrangiamenti per il recente LUltimo Ricatto). Battono pizzicori elettronici e macchine da scrivere nel recital pirandelliano di Preferirei Piuttosto Gente Per Bene Gente Per Male, accostabile inizialmente agli inquietanti monologhi a briglia sciolta di certi, ultimi Mariposa: salta poi fuori che il pezzo è un mash-up tra una criptica scheggia di dadà controculturale italiano (Preferirei Piuttosto di Francesco Currà, da Rapsodia Meccanica del 1976) e uno degli episodi più luminosi del cantautorato nazionalpopolare (Gente per bene e gente per male di Battisti, da Il Mio Canto Libero del 1972). Itziar En Semea è, infine, folk basco trasformato in colonna sonora di attivismo politico dagli antifranchisti Pantxo Eta Peio, e qui maciullato in pruriginoso noise catacombale.
La verità? Un suicidio così oculatamente pensato, pilotato, concretizzato, un ceffone così esplicito a certa, estetizzante facciata musicale (perché di bicchieri vuoti e bicchieri rotti stiamo, frippianamente, parlando) mancava in Italia da ventanni, da quando i Rifiuti Solidi Urbani utilizzarono gli stessi studi di registrazione di Elio E Le Storie Tese per coniugare poetica industrial a pesantezza grindcore, techno svalvolata e rasoiate metalliche in un esordio, omonimo, tuttora insuperabile. Si era, nel 1994, sopra di una faglia che prometteva dissesto, culturale ancor prima che sociale. Irrintzi, nel 2012, cerca di ricreare il medesimo ambiente, variando però bersagli e munizioni, come bene dipingono i quattro inediti. Gernika Eta Bermeo è la presa di coscienza politica, il resoconto in basco del padre di Iriondo sul bombardamento di Guernica frastagliato da archi free jazz in sospensione e manipolazione di nerissimi loop lynchiani. La title track si muove su di una linea melodica (?) asciugata sullo schema dei quattro accordi e mandata in pezzi da bordate glitch, divagazioni elettroniche, ruggenti distorsioni vocali. La percussività di Elektraren Aurreskua, composizione di particolarismo folk fuori tempo massimo tra fischi selvaggi e cornamuse, si distende infine nel capolavoro di Il Cielo Sfondato, che fa ricamare surreali sentimentalismi per sax ed elaborati assoli di chitarra (impressionante, ancora oggi, la creatività di Paolo Tofani degli Area) sullordito arpeggiato di uno scheletrico, magnetico bordone di fondo, performato da uno speciale strumento indiano, lo Shahi Baaja.
Impossibile arrivare compiutamente e definitivamente a capo di Irrintzi, un libro di testo che fa corrispondere un corollario per brano e si presta a scatenare una ridda irrefrenabile di quesiti intorno a curiosità in merito, un po come accadeva per le avanguardie di metà secolo scorso, o per gli sperimentalismi degli anni 70: pregio insolito per un disco e sempre più raro nella musica tout court. Piacerà o non piacerà, dipenderà molto dal gusto specifico dellascoltatore. Nel mentre, siamo fieri di dire che è: e, come tale, si dovrà necessariamente affrontare.
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