Pere Ubu
The Modern Dance
“Padre Ubu, capitano dei dragoni, officiale di fiducia di re Venceslao, decorato con l'ordine dell'aquila rossa di Polonia, ex re d'Aragona, conte di Sandomir, uccide il re Venceslao e s'impadronisce così del trono; poi uccide i nobili e tutti coloro che l'avevano appoggiato. Ma il Padre Ubu deve diffidare del figlio di Venceslao, il principe Bougrelao, che inavvertitamente ha risparmiato e che spera di riconquistare il trono di suo padre”. Quello di Jarry è il Macbeth che si meritava la società dell’epoca e che ci meritiamo ancora noi oggi: la tragedia, superando i confini del razionale, diventa teoria dell’assurdo. Assurdo come risposta estrema allo sfacelo dell’umanità, non più rabbia o disperazione ma un modo più sottile di combattere il sistema (a patto che quel sistema voglia essere veramente combattuto oppure solamente ignorato). L’assurdo è quindi l’assioma da cui tutto dipende e che si materializza sottoforma di caos. I teoremi che discendono da questo assioma fondamentale sono: ritorno alla primitività e ad una concezione tribale del mondo, apologia dello schifo e del “brutto” estetico, irrazionalità come chiave per capire il pensiero umano. Tra Jarry e i Pere Ubu cambia solo il contesto ma il succo rimane quello.
Se Jarry, drammaturgo per caso, ambientava il crollo della ragione in una fantomatica ma comunque medioevale monarchia, i Pere Ubu spostano le lancette in avanti di qualche secolo, ambientando la loro pièce (perché fondamentalmente è di questo che si tratta) in una fantomatica ma comunque industriale società. Identificare Alfred Jarry, David Thomas e Pere Ubu non è poi così difficile: tre facce di una marionetta, la stessa, avida, sciocca, repellente e disgustosa, irrazionale, ipocrita marionetta. David Thomas è il perfetto Pere Ubu del XX secolo, con i suoi testi non-sense e irritanti, la sua voce stridula e inquietante. Allen Ravestine (tastiera cromatica ed evocativa), Tom Herman (chitarra scarna e metallica), Tony Maimone e Scott Krauss sono il sottofondo continuo, il basso pulsante che crea l’atmosfera in cui David Thomas recita le sue pantomime. Mai, probabilmente, sezioni ritmiche furono più importanti e creative di queste: il compito è generare un mondo parallelo, come la scenografia di un film.
La musica dei Pere Ubu è immagine, colore, visione di un mondo che ricorda “Metropolis” di Lang o “Brazil” di Gilliam: la ricostruzione di un universo post-industriale, post-nucleare basato sul trionfo della meccanizzazione e sulla disfatta dell’immaginazione, che ha già programmato il conto alla rovescia per il suo collasso, mondo ossessionato e maniacale sprofondato in una desolazione funerea e governato dal dio caos. Ed è quasi commovente come i Pere Ubu riescano a rendere tutto questo con una intensità straordinaria, con una magia che va ben oltre il concetto di rock ‘n roll. Se Jarry aveva scosso il mondo teatrale, proponendo un teatro basato sull’assurdo e sul demenziale, i Pere Ubu scuotono il mondo musicale, proponendo musica sull’assurdo e sul demenziale e in più hanno anche la presunzione di definire la via maestra della musica rock: “The modern dance”, la danza moderna ovvero la musica che incarna lo spirito della modernità. Quando il punk giunse come una coltellata a trafiggere la musica popolare fu come la discesa di Gesù Cristo in terra. L’antico testamento aveva i suoi canoni definiti e i suoi profeti intoccabili, ma la dispersione di quella genuinità iniziale e il reflusso sopraggiunto dopo il periodo d’oro portarono ad una lenta decadenza, ad una perdita di quel fuoco che da sempre governava la musica. Il punk ristabilì nuove sorgenti dalle quali nutrirsi e nuove risorse ma lo fece in maniera esplosiva, non organica e soprattutto distruttiva. Quando il punk puro deflagrò dopo pochi anni dalla sua venuta, implodendo su sé stesso, in molti corsero a recuperare i brandelli che rimasero in terra. Ogni brandello è paragonabile ad un vangelo del nuovo testamento. I Pere Ubu raccolsero il brandello concettuale del punk, quello che si può definire in maniera molto ambigua come art rock.
Anche nei Pistols (anche se sembra impossibile) erano forti le connotazioni intellettuali, soprattutto nei testi; certo non era un intellettualismo accademico ma era comunque una forma di intelletto. I Pere Ubu estremizzarono quelle connotazioni, generando un manifesto art punk. I testi dei Pere Ubu sono fondamentalmente delle pièce non–sense atte a supportare le recitazioni deliranti di David Thomas, personaggio quanto mai stravagante, un perfetto antieroe rock che di rockeggiante aveva ben poco a parte forse un istrionismo eccellente ed un carisma senza pari. Thomas canta la paranoia della giungla metropolitana, la pazzia e l’assurdo come esorcizzazione di un mondo malato e perverso, come via di fuga da quel mondo. Quel mondo viene ricreato in vitro dagli altri componenti, che con un lavoro musicale strepitoso riescono a trasferire quelle stesse perversioni e follie sulla nostra pelle. Di base si tratta di un rock ‘n roll tribale ma la “nuova danza” non è solo questo: il rock ‘n roll viene divelto, smembrato, fatto a pezzi dai mostri-macchina che popolano il mondo dei Pere Ubu. Fischi assordanti, pistoni, congegni meccanici: “The modern dance” è un concerto per macchine e follia e narra lo spirito di quei tempi probabilmente (e forse non lo farebbe anche oggi?). Rock ‘n roll devastato quindi e Thomas che si erge su di esso, come su un cumulo di macerie, recitando come un pazzo. Eppure la sensazione che si prova nell’ascoltare questo disco non è minimamente descrivibile da ciò che ho appena detto!
Nei Pere Ubu quella nevrosi da industrializzazione irrefrenabile che ho appena descritto è latente, nascosta proprio da quel cumulo di macerie pestato da Thomas. La follia in Thomas diventa così estrema da diventare catarsi, atto trascendentale e quello che si prova ascoltando questo disco (o almeno quello che provo io) è ebbrezza, quasi gioia incontenibile. Thomas pone una maschera sulla tragedia, una maschera zeppa di colori e visioni divertenti e ingegnose. Quella maschera copre, seppur in maniera incerta e tra enormi difficoltà, gli spettri del caos e della malvagità, ritrovando un equilibrio instabilissimo ma pur sempre un equilibrio. I Pere Ubu camminano sul filo di un rasoio, sotto di loro vi è la totale perdizione, la totale assurdità del mondo. Credo che questo possa far capire perché ritengo “the modern dance” uno dei più grandi dischi di tutti i tempi, dove per grande intendo quella sensazione per cui si sta ascoltando qualcosa di epocale, che rimarrà per sempre inciso a caratteri cubitali nella storia della musica. Non è musica, è un atto sacro, come lo può essere la “bibbia” per un cristiano o “il capitale” per un comunista. La sua religione è l’assurdo.
Un fischio, un sibilo assordante, poi un riffone boogie slabbrato: così comincia “The modern dance” e in particolare “Non-allignment pact”. Ed è subito manifesto imprescindibile dell’ art rock: la destrutturazione del rock ‘n roll attraverso il terribile canto stridulo di Thomas, un sibilo che percorre la traccia come una lama tagliente, sezioni ritmiche sghembe e arrugginite, cinguettii che imperversano in un contesto da bassifondi. La sensazione principe quando si ascolta questo pezzo è destabilizzazione e confusione unita ad una allegria malsana, in una sola parola follia. NAP è un boogie folle che sembra suonato da quattro ubriachi capitati lì per caso. Ma è una meraviglia. E siamo ancora al di qua del confine. “The modern dance” continua sulla stesso lunghezza d’onda. Ancora un rock ‘n roll scatenato, deviato da torrenti metallici in piena, intermezzato da collage rumoristici, strozzato dalla voce di Thomas, violentato da assoli lancinanti. Ma il capolavoro è forse il tessuto letteralmente dipinto da Ravenstine, giro di tastiera liquida minimale. Questa è musica che sgorga letteralmente dal cuore nonostante sia recitata con una perversione unica. Si respirano a pieni polmoni mille sfumature e una gamma di colori infinita. L’ebbrezza della follia fatta canzone.
La danza moderna del XX secolo. “Laughing” amplia la portata dell’universo Pere Ubu: siamo già oltre il ponte che collega il rock ‘n roll alla danza moderna. L si sviluppa in due movimenti praticamente uguali: Due crescendi mefistofelici che partono da una sezione free-form di fiati allucinante per approdare ad un boogie devastante, goliardico, assolutamente pazzesco. Quel boogie che chiude i due movimenti è una sorta di liberazione, di geniale via di fuga dal caos, dall’ossessione paranoica che plasma tutte le angosce e le inquietudini di Thomas and co. Ed è ancora ebbrezza, salvezza, catarsi. I fiati free-form come Cleveland, il boggie impazzito come la maschera di Thomas: almeno io la interpreto così. “When the devil comes we’ll shoot him with a gun/My baby says/And if he shows his face/we’ll laugh”. "Street waves" ritorna su sentieri rock 'n roll ma con un piglio decisamente più pesante. I PU creano un pezzo alla stooges, passando però attraverso le forche caudine del punk: il risultato è l'invenzione del garage. Le percussioni tribali di Scott Krauss sorreggono tutto (proprio come quelle di Scott Asheton) ma Thomas trasforma la libidine folle di Iggy Pop in follia libidinosa. I nitriti industriali in sottofondo come fumo acido compiono il resto. La giungla di Cleveland è ora davanti ai nostri occhi, siamo al cartello d'ingresso. Con "Chinese radiation" l'incubo è completo: il primo folle manifesto di arte musicale metropolitana.
Tre mini-movimenti contenuti in un pezzo di 3 minuti e mezzo. Intro atmosferico, un' elegia funerea e radioattiva da romanzo di De Lillo, immersi in onde di plutonio liquido. Poi il genio di Thomas inventa un meta-concerto con tanto di applausi e tifo sfrenato: il successo di pubblico mancato nella realtà, i Pere Ubu se lo creano da soli, ricreandolo in vitro. La pazzia sfuma in una autoreferenzialità quasi comica e pietosa ma i Pere Ubu sono consci di tutto questo. Il finale è all'insegna di una stasi quasi mistica, con accordi di piano slegati e rullate fuori tempo a riempire i vuoti. L'arte concettuale di Thomas quasi al massimo livello. L'angoscia urbana (1° parte), la megalomania (2° parte) e la desolazione interiore (3° parte): l'incubo di Thomas comincia a prendere forma. "Life Stinks" riparte dal garage sfrenato di SW ma è solamente una scusa per supportare il capolavoro canoro di David Thomas: giunto a metà disco, nel bel mezzo dell'incubo industriale, egli si trasforma in una belva impazzita, furia devastante posseduta da scariche di elettroshock, declamante frasi sconnesse. La metropoli come giungla africana, i Pere Ubu come suonatori tribali e David Thomas come capotribù mascherato da Caos: un delirio. E poi ancora più in profondo lungo i bordi dell'incubo. "Real World" è scioccante filastrocca alienante, ossessiva. Lacerata da lame di synth, violentata dalla stridula voce di Thomas. I Pere Ubu provano ancora a tenere lontano il pozzo nero che si affaccia sotto di loro, costruendo una rete fittissima di scherzi e di situazioni giocose. Eppure filtrano qua e là la disperazione e l'angoscia, non manca poi molto al momento in cui Thomas getterà la maschera. Introdotta da un sibilo funereo che perseguiterà tutto il pezzo, prende lentamente vita il capolavoro maestoso dell'album: "Over my head" è semplicemente per me uno dei più grandi pezzi che il rock abbia mai prodotto.
Una volta spente le luci dei siparietti di Thomas, rimane una desolazione interiore quasi imperiale, sottoforma di una ballad-litania "paint black". OMH è l'incredibile equilibrio instabile tra la follia e l'angoscia di Thomas, è il sospiro che inframezza il delirio di onnipotenza e il pessimismo cosmico di Thomas. Irripetibile perché è proprio quell'attimo che decade instantaneamente, uno stato d'animo che dura il tempo di essere consci di esso. L'unico momento dell'album in cui la realtà prevale sulla visione, in cui il bianco e nero prevale sui colori scintillanti del delirio di Thomas. OMH è quello che intendo quando penso ad un pezzo "in bianco e nero": non vi sono luci, è come un film noir, ha la stessa patina chic, lo stesso umore magicamente nero. E' come "ascensore per il patibolo" o "Casablanca": ha lo stesso compiacimento nel mostrare sè stesso, nel mostrarsi splendidamente triste. Ogni disco di rottura ha il suo capolavoro concettuale, il suo estremo punto di non ritorno. "Sentimental Journey" è ciò che dovrà essere e allo stesso tempo ciò che non dovrà essere la musica dei Pere Ubu: SJ sonda i limiti dell' ascoltabile, rappresenta quella forza incessante di esplorazione di nuovi territori sonori, nuove forme d'avanguardia musicale. Come dicevamo, quella dei Pere Ubu non è musica leggera, ma uno sforzo creativo concettuale che si appoggia alla musica leggera (mi vengono in mente i contemporanei Suicide che, con "Frankie Teardrop", percorrono la stessa strada).
In SJ il concetto oltrepassa la musica, per questo in molti storceranno il naso di fronte a questo pezzo. Ma SJ non va ascoltato come pezzo a sé stante, ma all'interno del progetto "The modern dance", contestualizzandolo ai temi che i Pere Ubu trattano. SJ è una sinossi delle tematiche affrontate dai Pere Ubu lungo tutto l'album. Il viaggio sentimentale di David Thomas è un concerto per fiati e bicchieri spezzati: è il secondo capolavoro canoro di Thomas anche se di canoro ha ben poco. Si tratta di teatro musicale, la recita di una sbornia, David Thomas distrugge gli schemi ritmici per affrontare un improvvisazione free tratta da un evento verosimile (qualcosa di simile a ciò che faceva ad esempio Captain Beefheart in "The dust blows forward 'n the dust blows back"), il resto della strumentazione, dalle rullate caotiche di batteria alle scariche di synth, genera l'humor nero radioattivo che affianca il suo monologo delirante. Una volta strappato il velo costituito dai "jokes" di Thomas, rimane lo smarrimento e l'angoscia, il caos prodotto dalla perdita di riferimenti validi. "Outside Monoxide, Inside Paradise, Window my size" è la metafora dell'urlo disperato di Thomas che non trova pace in un mondo desolato ed apocalittico. SJ è il rovescio della medaglia del "Like a Rolling Stones" di Dylan: in Dylan lo smarrimento erano visti come una sfida, come una difficoltà da cui svincolarsi per poter accedere alla massima libertà spirituale, una conquista insomma.
In Thomas lo smarrimento è il simbolo della sconfitta e della passività dell'uomo che può avere come unica conclusione il mestissimo desiderio di un ritorno a Casa, simbolo esemplare di una difesa dovuta a paura e angoscia nei confronti della società, paradossalmente unica via di fuga dall'instabilità propria e del mondo ("Table, chairs, TV, book, other stuff, Home, It's Home, windows, my size"). Se Jagger era il superuomo dannunziano,Thomas è l'inetto sveviano, l'antieroe per eccellenza del rock' n roll. Dopo un pezzo come SJ è difficile rimanere mentalmente solidi e non farsi prendere da nebbie paranoiche. "Humor me" non inverte comunque lo stato delle cose, con il suo andamento zoppicante tagliato dalle solite fitte di synth che lo attraversano da cima a fondo. HM è la coda quasi in punta di piedi di un album colossale, come se i Pere Ubu, dopo aver volato con la loro musica per 40 minuti, si riimmergessero nella loro realtà, lentamente, sommersi dal livello di acqua piano piano crescente e poi sparissero alla nostra vista.
Tweet