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R Recensione

10/10

Pere Ubu

The Modern Dance

“Padre Ubu, capitano dei dragoni, officiale di fiducia di re Venceslao, decorato con l'ordine dell'aquila rossa di Polonia, ex re d'Aragona, conte di Sandomir, uccide il re Venceslao e s'impadronisce così del trono; poi uccide i nobili e tutti coloro che l'avevano appoggiato. Ma il Padre Ubu deve diffidare del figlio di Venceslao, il principe Bougrelao, che inavvertitamente ha risparmiato e che spera di riconquistare il trono di suo padre”. Quello di Jarry è il Macbeth che si meritava la società dell’epoca e che ci meritiamo ancora noi oggi: la tragedia, superando i confini del razionale, diventa teoria dell’assurdo. Assurdo come risposta estrema allo sfacelo dell’umanità, non più rabbia o disperazione ma un modo più sottile di combattere il sistema (a patto che quel sistema voglia essere veramente combattuto oppure solamente ignorato). L’assurdo è quindi l’assioma da cui tutto dipende e che si materializza sottoforma di caos. I teoremi che discendono da questo assioma fondamentale sono: ritorno alla primitività e ad una concezione tribale del mondo, apologia dello schifo e del “brutto” estetico, irrazionalità come chiave per capire il pensiero umano. Tra Jarry e i Pere Ubu cambia solo il contesto ma il succo rimane quello.

Se Jarry, drammaturgo per caso, ambientava il crollo della ragione in una fantomatica ma comunque medioevale monarchia, i Pere Ubu spostano le lancette in avanti di qualche secolo, ambientando la loro pièce (perché fondamentalmente è di questo che si tratta) in una fantomatica ma comunque industriale società. Identificare Alfred Jarry, David Thomas e Pere Ubu non è poi così difficile: tre facce di una marionetta, la stessa, avida, sciocca, repellente e disgustosa, irrazionale, ipocrita marionetta. David Thomas è il perfetto Pere Ubu del XX secolo, con i suoi testi non-sense e irritanti, la sua voce stridula e inquietante. Allen Ravestine (tastiera cromatica ed evocativa), Tom Herman (chitarra scarna e metallica), Tony Maimone e Scott Krauss sono il sottofondo continuo, il basso pulsante che crea l’atmosfera in cui David Thomas recita le sue pantomime. Mai, probabilmente, sezioni ritmiche furono più importanti e creative di queste: il compito è generare un mondo parallelo, come la scenografia di un film.

La musica dei Pere Ubu è immagine, colore, visione di un mondo che ricorda “Metropolis” di Lang o “Brazil” di Gilliam: la ricostruzione di un universo post-industriale, post-nucleare basato sul trionfo della meccanizzazione e sulla disfatta dell’immaginazione, che ha già programmato il conto alla rovescia per il suo collasso, mondo ossessionato e maniacale sprofondato in una desolazione funerea e governato dal dio caos. Ed è quasi commovente come i Pere Ubu riescano a rendere tutto questo con una intensità straordinaria, con una magia che va ben oltre il concetto di rock ‘n roll. Se Jarry aveva scosso il mondo teatrale, proponendo un teatro basato sull’assurdo e sul demenziale, i Pere Ubu scuotono il mondo musicale, proponendo musica sull’assurdo e sul demenziale e in più hanno anche la presunzione di definire la via maestra della musica rock: “The modern dance”, la danza moderna ovvero la musica che incarna lo spirito della modernità.   Quando il punk giunse come una coltellata a trafiggere la musica popolare fu come la discesa di Gesù Cristo in terra. L’antico testamento aveva i suoi canoni definiti e i suoi profeti intoccabili, ma la dispersione di quella genuinità iniziale e il reflusso sopraggiunto dopo il periodo d’oro portarono ad una lenta decadenza, ad una perdita di quel fuoco che da sempre governava la musica. Il punk ristabilì nuove sorgenti dalle quali nutrirsi e nuove risorse ma lo fece in maniera esplosiva, non organica e soprattutto distruttiva. Quando il punk puro deflagrò dopo pochi anni dalla sua venuta, implodendo su sé stesso, in molti corsero a recuperare i brandelli che rimasero in terra. Ogni brandello è paragonabile ad un vangelo del nuovo testamento. I Pere Ubu raccolsero il brandello concettuale del punk, quello che si può definire in maniera molto ambigua come art rock.

Anche nei Pistols (anche se sembra impossibile) erano forti le connotazioni intellettuali, soprattutto nei testi; certo non era un intellettualismo accademico ma era comunque una forma di intelletto. I Pere Ubu estremizzarono quelle connotazioni, generando un manifesto art punk. I testi dei Pere Ubu sono fondamentalmente delle pièce non–sense atte a supportare le recitazioni deliranti di David Thomas, personaggio quanto mai stravagante, un perfetto antieroe rock che di rockeggiante aveva ben poco a parte forse un istrionismo eccellente ed un carisma senza pari. Thomas canta la paranoia della giungla metropolitana, la pazzia e l’assurdo come esorcizzazione di un mondo malato e perverso, come via di fuga da quel mondo. Quel mondo viene ricreato in vitro dagli altri componenti, che con un lavoro musicale strepitoso riescono a trasferire quelle stesse perversioni e follie sulla nostra pelle. Di base si tratta di un rock ‘n roll tribale ma la “nuova danza” non è solo questo: il rock ‘n roll viene divelto, smembrato, fatto a pezzi dai mostri-macchina che popolano il mondo dei Pere Ubu. Fischi assordanti, pistoni, congegni meccanici: “The modern dance” è un concerto per macchine e follia e narra lo spirito di quei tempi probabilmente (e forse non lo farebbe anche oggi?). Rock ‘n roll devastato quindi e Thomas che si erge su di esso, come su un cumulo di macerie, recitando come un pazzo. Eppure la sensazione che si prova nell’ascoltare questo disco non è minimamente descrivibile da ciò che ho appena detto!

Nei Pere Ubu quella nevrosi da industrializzazione irrefrenabile che ho appena descritto è latente, nascosta proprio da quel cumulo di macerie pestato da Thomas. La follia in Thomas diventa così estrema da diventare catarsi, atto trascendentale e quello che si prova ascoltando questo disco (o almeno quello che provo io) è ebbrezza, quasi gioia incontenibile. Thomas pone una maschera sulla tragedia, una maschera zeppa di colori e visioni divertenti e ingegnose. Quella maschera copre, seppur in maniera incerta e tra enormi difficoltà, gli spettri del caos e della malvagità, ritrovando un equilibrio instabilissimo ma pur sempre un equilibrio. I Pere Ubu camminano sul filo di un rasoio, sotto di loro vi è la totale perdizione, la totale assurdità del mondo. Credo che questo possa far capire perché ritengo “the modern dance” uno dei più grandi dischi di tutti i tempi, dove per grande intendo quella sensazione per cui si sta ascoltando qualcosa di epocale, che rimarrà per sempre inciso a caratteri cubitali nella storia della musica. Non è musica, è un atto sacro, come lo può essere la “bibbia” per un cristiano o “il capitale” per un comunista. La sua religione è l’assurdo.  

Un fischio, un sibilo assordante, poi un riffone boogie slabbrato: così comincia “The modern dance” e in particolare “Non-allignment pact”. Ed è subito manifesto imprescindibile dell’ art rock: la destrutturazione del rock ‘n roll attraverso il terribile canto stridulo di Thomas, un sibilo che percorre la traccia come una lama tagliente, sezioni ritmiche sghembe e arrugginite, cinguettii che imperversano in un contesto da bassifondi. La sensazione principe quando si ascolta questo pezzo è destabilizzazione e confusione unita ad una allegria malsana, in una sola parola follia. NAP è un boogie folle che sembra suonato da quattro ubriachi capitati lì per caso. Ma è una meraviglia. E siamo ancora al di qua del confine. “The modern dance” continua sulla stesso lunghezza d’onda. Ancora un rock ‘n roll scatenato, deviato da torrenti metallici in piena, intermezzato da collage rumoristici, strozzato dalla voce di Thomas, violentato da assoli lancinanti. Ma il capolavoro è forse il tessuto letteralmente dipinto da Ravenstine, giro di tastiera liquida minimale. Questa è musica che sgorga letteralmente dal cuore nonostante sia recitata con una perversione unica. Si respirano a pieni polmoni mille sfumature e una gamma di colori infinita. L’ebbrezza della follia fatta canzone.

La danza moderna del XX secolo. “Laughing” amplia la portata dell’universo Pere Ubu: siamo già oltre il ponte che collega il rock ‘n roll alla danza moderna. L si sviluppa in due movimenti praticamente uguali: Due crescendi mefistofelici che partono da una sezione free-form di fiati allucinante per approdare ad un boogie devastante, goliardico, assolutamente pazzesco. Quel boogie che chiude i due movimenti è una sorta di liberazione, di geniale via di fuga dal caos, dall’ossessione paranoica che plasma tutte le angosce e le inquietudini di Thomas and co. Ed è ancora ebbrezza, salvezza, catarsi. I fiati free-form come Cleveland, il boggie impazzito come la maschera di Thomas: almeno io la interpreto così. “When the devil comes we’ll shoot him with a gun/My baby says/And if he shows his face/we’ll laugh”. "Street waves" ritorna su sentieri rock 'n roll ma con un piglio decisamente più pesante. I PU creano un pezzo alla stooges, passando però attraverso le forche caudine del punk: il risultato è l'invenzione del garage. Le percussioni tribali di Scott Krauss sorreggono tutto (proprio come quelle di Scott Asheton) ma Thomas trasforma la libidine folle di Iggy Pop in follia libidinosa. I nitriti industriali in sottofondo come fumo acido compiono il resto. La giungla di Cleveland è ora davanti ai nostri occhi, siamo al cartello d'ingresso. Con "Chinese radiation" l'incubo è completo: il primo folle manifesto di arte musicale metropolitana.

Tre mini-movimenti contenuti in un pezzo di 3 minuti e mezzo. Intro atmosferico, un' elegia funerea e radioattiva da romanzo di De Lillo, immersi in onde di plutonio liquido. Poi il genio di Thomas inventa un meta-concerto con tanto di applausi e tifo sfrenato: il successo di pubblico mancato nella realtà, i Pere Ubu se lo creano da soli, ricreandolo in vitro. La pazzia sfuma in una autoreferenzialità quasi comica e pietosa ma i Pere Ubu sono consci di tutto questo. Il finale è all'insegna di una stasi quasi mistica, con accordi di piano slegati e rullate fuori tempo a riempire i vuoti. L'arte concettuale di Thomas quasi al massimo livello. L'angoscia urbana (1° parte), la megalomania (2° parte) e la desolazione interiore (3° parte): l'incubo di Thomas comincia a prendere forma. "Life Stinks" riparte dal garage sfrenato di SW ma è solamente una scusa per supportare il capolavoro canoro di David Thomas: giunto a metà disco, nel bel mezzo dell'incubo industriale, egli si trasforma in una belva impazzita, furia devastante posseduta da scariche di elettroshock, declamante frasi sconnesse. La metropoli come giungla africana, i Pere Ubu come suonatori tribali e David Thomas come capotribù mascherato da Caos: un delirio. E poi ancora più in profondo lungo i bordi dell'incubo. "Real World" è scioccante filastrocca alienante, ossessiva. Lacerata da lame di synth, violentata dalla stridula voce di Thomas. I Pere Ubu provano ancora a tenere lontano il pozzo nero che si affaccia sotto di loro, costruendo una rete fittissima di scherzi e di situazioni giocose. Eppure filtrano qua e là la disperazione e l'angoscia, non manca poi molto al momento in cui Thomas getterà la maschera. Introdotta da un sibilo funereo che perseguiterà tutto il pezzo, prende lentamente vita il capolavoro maestoso dell'album: "Over my head" è semplicemente per me uno dei più grandi pezzi che il rock abbia mai prodotto.

Una volta spente le luci dei siparietti di Thomas, rimane una desolazione interiore quasi imperiale, sottoforma di una ballad-litania "paint black". OMH è l'incredibile equilibrio instabile tra la follia e l'angoscia di Thomas, è il sospiro che inframezza il delirio di onnipotenza e il pessimismo cosmico di Thomas. Irripetibile perché è proprio quell'attimo che decade instantaneamente, uno stato d'animo che dura il tempo di essere consci di esso. L'unico momento dell'album in cui la realtà prevale sulla visione, in cui il bianco e nero prevale sui colori scintillanti del delirio di Thomas. OMH è quello che intendo quando penso ad un pezzo "in bianco e nero": non vi sono luci, è come un film noir, ha la stessa patina chic, lo stesso umore magicamente nero. E' come "ascensore per il patibolo" o "Casablanca": ha lo stesso compiacimento nel mostrare sè stesso, nel mostrarsi splendidamente triste. Ogni disco di rottura ha il suo capolavoro concettuale, il suo estremo punto di non ritorno. "Sentimental Journey" è ciò che dovrà essere e allo stesso tempo ciò che non dovrà essere la musica dei Pere Ubu: SJ sonda i limiti dell' ascoltabile, rappresenta quella forza incessante di esplorazione di nuovi territori sonori, nuove forme d'avanguardia musicale. Come dicevamo, quella dei Pere Ubu non è musica leggera, ma uno sforzo creativo concettuale che si appoggia alla musica leggera (mi vengono in mente i contemporanei Suicide che, con "Frankie Teardrop", percorrono la stessa strada).

In SJ il concetto oltrepassa la musica, per questo in molti storceranno il naso di fronte a questo pezzo. Ma SJ non va ascoltato come pezzo a sé stante, ma all'interno del progetto "The modern dance", contestualizzandolo ai temi che i Pere Ubu trattano. SJ è una sinossi delle tematiche affrontate dai Pere Ubu lungo tutto l'album. Il viaggio sentimentale di David Thomas è un concerto per fiati e bicchieri spezzati: è il secondo capolavoro canoro di Thomas anche se di canoro ha ben poco. Si tratta di teatro musicale, la recita di una sbornia, David Thomas distrugge gli schemi ritmici per affrontare un improvvisazione free tratta da un evento verosimile (qualcosa di simile a ciò che faceva ad esempio Captain Beefheart in "The dust blows forward 'n the dust blows back"), il resto della strumentazione, dalle rullate caotiche di batteria alle scariche di synth, genera l'humor nero radioattivo che affianca il suo monologo delirante. Una volta strappato il velo costituito dai "jokes" di Thomas, rimane lo smarrimento e l'angoscia, il caos prodotto dalla perdita di riferimenti validi. "Outside Monoxide, Inside Paradise, Window my size" è la metafora dell'urlo disperato di Thomas che non trova pace in un mondo desolato ed apocalittico. SJ è il rovescio della medaglia del "Like a Rolling Stones" di Dylan: in Dylan lo smarrimento erano visti come una sfida, come una difficoltà da cui svincolarsi per poter accedere alla massima libertà spirituale, una conquista insomma.

In Thomas lo smarrimento è il simbolo della sconfitta e della passività dell'uomo che può avere come unica conclusione il mestissimo desiderio di un ritorno a Casa, simbolo esemplare di una difesa dovuta a paura e angoscia nei confronti della società, paradossalmente unica via di fuga dall'instabilità propria e del mondo ("Table, chairs, TV, book, other stuff, Home, It's Home, windows, my size"). Se Jagger era il superuomo dannunziano,Thomas è l'inetto sveviano, l'antieroe per eccellenza del rock' n roll. Dopo un pezzo come SJ è difficile rimanere mentalmente solidi e non farsi prendere da nebbie paranoiche. "Humor me" non inverte comunque lo stato delle cose, con il suo andamento zoppicante tagliato dalle solite fitte di synth che lo attraversano da cima a fondo. HM è la coda quasi in punta di piedi di un album colossale, come se i Pere Ubu, dopo aver volato con la loro musica per 40 minuti, si riimmergessero nella loro realtà, lentamente, sommersi dal livello di acqua piano piano crescente e poi sparissero alla nostra vista.      

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Voto degli utenti: 9,3/10 in media su 47 voti.

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Uallarotto (ha votato 10 questo disco) alle 8:46 del 6 luglio 2009 ha scritto:

La recensione non la leggo, mai leggere quelle sui Pere Ubu Disco grandioso. Lato A da isola deserta.

Mr. Wave (ha votato 9 questo disco) alle 10:52 del 6 luglio 2009 ha scritto:

Incommensurabile opera; tra ritmi nevrastenici, tensioni paranoiche urbane, cacofonia e deturpazioni melodiche. Una delle formazioni più geniali ed ''art'' della storia della musica rock.

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 23:18 del 7 luglio 2009 ha scritto:

Qualcosa di superiore...Come dissanguare rock'n'roll, garage e punk e dotarlo di una fredda anima post-industriale. Veramente geniale. Recensione detagliatissima e approfondita come al solito

REBBY (ha votato 10 questo disco) alle 1:50 del 8 luglio 2009 ha scritto:

Ho visto un loro concerto a Bologna ai tempi di

Dub housing (LP successivo a questo), sicuramente

tra i più sconvolgenti della mia vita. Mi allineo

agli interventi precedenti e alla bella recensione

nel "glorificare" questo capolavoro assoluto.

loson (ha votato 10 questo disco) alle 10:24 del 8 luglio 2009 ha scritto:

Il disco, ovviamente, è qualcosa di sovrannaturale. La disamina molto dettagliata, esaustiva, quasi totalizzante. Proprio in ragione della tua/vostra compentenza, caro collettivo dedalus (ma chiamarvi coi vostri nomi no? ;D) mi permetto di muovere una critica, in particolare circa la frase: "I Pere Ubu raccolsero il brandello concettuale del punk, quello che si può definire in maniera molto ambigua come art rock". Ora, che il punk sia stato idealizzato a tal punto da ficcarci dentro un pò tutto il represso dei critici anti-prog è assodato, ma non venitemi a dire che nell'ideologia punk erano ravvisabili elementi anche remotamente riconducibili all'art-rock, eh...;D A livello concettale, il punk era violenza rock'n'roll allo stato brado, persino molto "giocoso", per nulla "arty". Anzi, il suo ritorno alle radici era una netta presa di posizione contro tutto ciò che sapeva anche lontanamente di "concettuale" o "intellettuale". L'art-rock (concetto molto nebuloso, su questo concordo) identifica, semmai, un sommerso di suoni e approcci che saranno appunto radicalizzati dalla new wave/no wave. Ah, altra cosa: vi imploro, al posto di "musica leggera" potete usare n sinonimo, o semplicemente pop music? Non è un rimprovero eh, è che io personalmente non lo sopporto. Ogni volta che lo leggo mi immagino Mollica o quell'altro critico sanremese a farsi i loro bei pipponi su Rita Pavone...

fabfabfab (ha votato 9 questo disco) alle 11:22 del 8 luglio 2009 ha scritto:

Per una volta il mio voto e quello di pierino coincidono...

simone coacci (ha votato 10 questo disco) alle 11:28 del 8 luglio 2009 ha scritto:

Vabè, che dire, questo è uno degli esami fondamentali del primo anno di storia dell'arte (del rock). O lo passi o sei fuori. E diventi come Mollica.

loson (ha votato 10 questo disco) alle 11:35 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE:

Infatti Mollica pensa che i Monkees siano art-rock e Pupo un cantautore, ricordiamolo. ;D

simone coacci (ha votato 10 questo disco) alle 11:53 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE: RE:

Si lui ormai è una macchietta vivente: non sfigurerebbe nella galleria di freak cinematografici dei suoi amici Fellini e Benigni.

bargeld (ha votato 10 questo disco) alle 12:34 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE: RE: RE:

a me è simpatico! cioè anch'io lo mando sempre a cagare, ha una buona conoscenza musicale senza un minimo di competenza, però dai è un uomo buono! e comunque spesso sottolinea eventi dischi e iniziative che sulle tv nazionali non avrebbero altrimenti il minimo spazio. è poco, ma è qualcosa! ah scusate l'o.t., naturalmentethe modern dance non merita altre parole che: capolavoro.

loson (ha votato 10 questo disco) alle 12:46 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE: RE: RE: RE:

No ma io mica lo odio, figurati. E' un bontempone, ispira serenità zen. Però dice fesserie, almeno quando parla di musica. Sul versante cinematografico qualche osservazione intelligente riesce ancora a farla, ma mi domando fino a quando potrà permetterselo... Per il resto, buon "Do Re Ciak Gulp!"a tutti! ;D

bargeld (ha votato 10 questo disco) alle 12:50 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE: RE: RE: RE: RE:

good night my darling...

bargeld (ha votato 10 questo disco) alle 12:53 del 8 luglio 2009 ha scritto:

o era goodbye... bah vabbè chiuso il discorso!

loson (ha votato 10 questo disco) alle 12:58 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE:

Ahahah, mi sa che era goodbye... Mamma mia che stacchetti orripilanti. Possono far sorridere solo mia nonna.

Uallarotto (ha votato 10 questo disco) alle 12:55 del 8 luglio 2009 ha scritto:

Completamente d'accordo con il primo commento di Loson... ed è d'accordo pure David Thomas. Da una sua intervista di qualche anno fa: "Tutta questa gente si equivaleva, era grande... be’ forse sto esagerando un po’, ma... non c’erano tutte le divisioni che si dicono. Il problema della musica rock è che non è presa seriamente come una forma d’arte. Questo ha a che fare anche con il movimento punk, con la natura del movimento punk, che fu una sorta di controrivoluzione. Il movimento punk fu creato per sovvertire la rivoluzione, per mettere al tappeto la musica rock. Il punk, i Sex Pistols e roba del genere furono inventati dalla Sony, dalla Warner Brothers e da compagnie simili." Per me l'etichetta post-Punk, riferita ai Pere Ubu, fa acqua da tutte le parti.

loson (ha votato 10 questo disco) alle 13:11 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE:

Beh, certi punti del discorso di Thomas sono un pò forzati, tipo il fatto che il punk sia stato un fenomeno messo in piedi dalle etichette discografiche...o_O La mia precisazione non voleva togliere valenza al punk - del quale anzi continuo ad amare molti frangenti, pure se sottilmente reazionari -, piuttosto notare come il punk sia stato qualcosa di completamente estraneo all'albero genealogico dell'art-rock, se mai è esistito. Anzi, il punk è stato la negazione dell'art-rock, ragion per cui da esso non può estrapolarsi alcun "barlume concettuale" che rimandi a quel sentire. Sulla questione Pere Ubu/post-punk, caro Ullarotto, non so che dire... Gli Ubu hanno, in sostanza, applicato al garage (l'era mitica a cui ha guardato anche il punk) la contropare "arty" dell'asse Beefheart-Red Crayola, con in più le derive terroristiche del synth e gli atteggiamenti teatrali. Magari non avranno attinto direttamente ad esso, e quindi da questo punto di vista il tuo discorso non fa una piega...

Uallarotto (ha votato 10 questo disco) alle 14:18 del 8 luglio 2009 ha scritto:

Nemmeno io sono totalmente d'accordo con Thomas... anche perché Punk è un concetto vasto, o si sceglie l'attitudine o il suono. Ho postato le sue parole solo per esprimere il mio parere, ma a quanto pare non solo mio, in quanto ritengo che con il post-Punk i Pere Ubu non hanno nulla a che vedere. Comunque esiste Punk e Punk... Sex Pistols & Co. erano certamente reazionari, situazionisti e quant'altro, ma c'erano pure i Wire di Pink Flag, che univano la componente art al Punk... se vogliamo pure Chairs Missing, ma quello è già più post-Punk.

loson (ha votato 10 questo disco) alle 15:01 del 8 luglio 2009 ha scritto:

RE:

Ma infatti gli Wire, come i primi Talking Heads, erano un pò pesci fuor d'acqua nel panorama punk dell'epoca. Erano "stilisti", avevano frequentato scuole d'arte. Detto questo, molti gruppi punk erano ben più che semplici revivalisti: pensa agli Adverts, alla genialità pop dei Buzzcocks (i loro ultimi singoli poi sono già new wave, e infatti Devoto formerà i Magazine)... Diciamo che nel punk vi erano comunque un sacco di "teste pensanti" (lo stesso John Lyndon) che, quando l'onda d'urto cessò, pensarono bene di convogliare le loro idee in altri progetti.

Uallarotto (ha votato 10 questo disco) alle 15:37 del 8 luglio 2009 ha scritto:

E sì, discorso complicato e questo intendevo con "o si sceglie l'attitudine o il suono". Per me è molto più Punk John Lyndon che Johnny Rotten ...Johnny Rotten è più Pulp Ovviamente per l'accezione che do io al termine Punk.

benoitbrisefer (ha votato 9 questo disco) alle 23:40 del 9 luglio 2009 ha scritto:

Se nella letteratura si etichettano come decadentismo tanto Pascoli che D'Annunzio non mi preoccuperei molto sulla questione se i Pere Ubu sono punk o no... diciamo che hanno pubblicato i loro primi capolavori in un momento di svolta epocale del rock, che in loro c'è abbastanza rabbia e paranoia urbana, spleen esistenziale e lucida trasgressione da giustificare, in senso lato, un accostamento al movimento punk. Se poi analizziamo le forme del linguaggio, l'attitudine estetica e il tessuto poetico-filosofico è chiaro che siamo su altri lidi... Sull'altra quaestione meglio il Paperica di Cavazzano,senz'altro più simpatico dell'originale!!!

Bellerofonte (ha votato 10 questo disco) alle 22:53 del 26 marzo 2010 ha scritto:

Un calderone di pura genialità!

Un Disco incommensurbile, pazzesco, enorme! e Dub Housing non è da meno

bart (ha votato 10 questo disco) alle 2:08 del 30 marzo 2010 ha scritto:

Un disco che ha più di trent'anni, eppure suona più attuale che mai! Sprimentale ma allo stesso tempo accessibile. Strepitoso Thomas!

PetoMan 2.0 evolution (ha votato 4 questo disco) alle 21:56 del 19 agosto 2010 ha scritto:

Si ok, ma andando al sodo, e saltando i preliminari e la parte su forma, contenuto, brutto estetico, post atomico, post industriale, alienazione e cazzi e mazzi vari, devo dire che il disco fa leggermente schifo.

Utente non più registrato alle 22:04 del 19 agosto 2010 ha scritto:

RE: devo dire che il disco fa leggermente schifo

L'importante è avere le idee chiare..

bart (ha votato 10 questo disco) alle 12:24 del 19 novembre 2010 ha scritto:

Complimenti per la recensione. Davvero molto bella.

Hexenductionhour (ha votato 10 questo disco) alle 15:24 del 19 gennaio 2011 ha scritto:

come votare un album del genere e sopratutto come descrivere quest'album,un capolavoro geniale ogni brano ha qualcosa da aggiungere dove tutto sembra già stato detto,ogni canzone sembra descrivere musicalmente il periodo di civiltà post/industrializzata che stiamo vivendo...quelle che possono sembrare delle canzoni pop vengono in realtà stravolte sconquassate da rumori industriali sonorità fuori dall'ordinario e sopratutto da una voce/non voce da far sembrare la canzone quasi una parodia di se stessa,sebbene non sia un album altamente sofisticato le canzoni sembrano una specie di pop song da "manicomio" dove,come di solito succede,quella che sembra una pazzia è in realtà una stupenda genialità.

-----------------------------------------------come un pugno in faccia ad una società ormai standardizzata

Mirko Diamanti (ha votato 10 questo disco) alle 20:40 del 18 novembre 2011 ha scritto:

art rock, punk rock, e garage rock in un disco rivelatorio. Sezione ritmica mostruosa e recensione perfetta.

alekk (ha votato 9 questo disco) alle 11:35 del 22 giugno 2013 ha scritto:

una delle pietre miliari della new wave e dei secondi settanta. un leggero calo (per me) nella seconda parte del disco dove non c'è la frizzante e brillantissima genialità delle prime canzoni(Non alignment pack e Modern Dance ) ma si naviga al top del genere.

NDP88 (ha votato 9,5 questo disco) alle 12:48 del 28 luglio 2014 ha scritto:

E' una pagana rappresentazione della fine. E' un rito funebre per l'umanità dopo la catastrofe. Le liriche surreali e lo humour goliardico ne attenuano la drammaticità ma accrescono al tempo stesso la sensazione di follia collettiva. I riferimenti musicali non si contano. Difficile non considerare quest'opera come una delle maggiori di sempre.

tonysoprano (ha votato 10 questo disco) alle 21:18 del 22 maggio 2016 ha scritto:

Signore e signori...il new wave...(e forse anche qualcos'altro)

Vito (ha votato 10 questo disco) alle 21:29 del 20 gennaio 2020 ha scritto:

Forse il disco più importante di tutta la new wave americana.era avanti anni luce e ancora oggi sembra venire dal futuro.