R Recensione

10/10

Silver Apples

Silver Apples

Simeon Coxe e Dan Taylor erano dei veri geniacci, su questo non ci piove. Pochi come questo duo, uno specialista in elettronica, l’altro abile percussionista, sono stati in anticipo sui tempi nella storia della musica.

Eppure il loro progetto Silver Apples, nato dalla collaborazione fra i due sorta nel 1967, è uno dei nomi più ingiustamente dimenticati dai posteri (oggi solamente i cultori si ricordano di loro). Va detto però che, a dispetto della loro scarsa fortuna successiva, i loro unici due dischi, un omonimo del ’68 e “Contact” del ’69, sono stati dei veri e propri fulmini a ciel sereno, in senso positivo, riuscendo a precorrere in sole 18 tracce praticamente ogni genere e ogni tendenza che si sarebbe affermata nei decenni successivi; se al tempo stesso è inesatto affermare che la band newyorkese ha la paternità della musica che si ascolta oggi (ulteriore prova di come nella storia del rock le vie di mezzo esistano molto raramente), in ogni caso si può ben dire che new wave, synth pop, drum’n bass, world music e collage rock alla Residents si possano con enorme stupore cogliere in maniera molto semplicistica e rudimentale già in questi due album.

In particolare, ascoltare il loro primo disco, che di fatto già definisce tutto della loro estetica, è un’esperienza senza precedenti, un trip all’interno di spericolate sperimentazioni che il mitico sintetizzatore a dodici oscillatori di Coxe contribuisce a creare attraverso tessuti di forte stampo lisergico. Ed è proprio a causa di questa impronta psichedelica che il duo è stato fatto rientrare, erronemamente a nostro avviso, nel genere omonimo. La musica dei Silver Apples è molto di più: è un tentativo ottimamente riuscito di far convivere un’anima primitiva (data dalle percussioni e dal loro incedere spesso volutamente ingenuo e cacofonico), e un’anima futurista (data dai riverberi e dagli effetti del sintetizzatore, che sembrano proiettare gli scenari in territori virtuali e avveniristici).

Ma procediamo con ordine: il nebbioso synth esplode subito nella prima traccia, “Oscillations”, permeata da un magnifico incastrarsi tra i cadenzati drummings di Taylor e i sibili provocati da Coxe, il tutto attraversato da un cantato in crescendo che dà immediatamente all’ascoltatore uno strano senso d’oppressione e claustrofobia, sensazione che si manterrà per tutto il prosieguo dell’album.

La successiva, “Seagreen Serenade”, è, come anticipato dal titolo, una romantica serenata, che però perde subito i connotati passionali, a favore di un clima gelido e spettrale (e in questo non solo il cantato di Taylor è esemplare, ma anche il magnifico ed enigmatico flauto che si aggira in sottofondo, suonato da Simeon).

Lovefinger” è uno dei capolavori assoluti del disco: dopo un’introduzione batteristica dal suono estremamente pulito, si fanno avanti pulsazioni e battiti elettronici dal sapore pinkfloydiano (stile “Astronomy Domine”), mentre il consueto clima raggelante sembra avvolgere ogni cosa. Più che una canzone, è un saggio su come creare arte in musica.

Subito dopo arriva il secondo capolavoro, e a parere del sottoscritto il vertice toccato dal duo: “Program” presenta un andamento simile alle tracce che lo precedono, ma ciò che fa unico questo pezzo sono le occasionali incursioni di brani operistici, voci di giornalisti (anche italiani!), annunci pubblicitari e sonorità da bande di paese, il tutto rigorosamente filtrato e triturato in un miasma di suoni confuso e volutamente disorientante.

E le sorprese non terminano certamente a questo punto: “Velvet Cave” anticipa di almeno due anni buoni il kraut rock teutonico attraverso folate di vento sintetico e percussività insistita (che sfocia in un climax assordante e confusionario) che riecheggiano alle orecchie dell’ascoltatore navigato Cluster e Can, mentre “Whirly Bird” è un proto-esercizio di world music che si stempera in accompagnamenti di tromba (prodotta rigorosamente in modo artificiale) dal sapore hasselliano.

Dust” aumenta in modo esponenziale il senso di perdizione: difficile nel ’68 prevedere dai quattro gatti che acquistarono questo disco che quei suoni, quell’incedere marziale e cingolante e quel cantato in preda al panico sarebbero stati etichettati dieci anni più tardi come “industrial”. La new wave nuda e cruda trova in questa incredibile traccia la sua piena espressione.

Ritmo tribale da danza della pioggia indiana apre “Dancing Gods”, che è la migliore incarnazione di quell’anima primitivista del duo di cui si diceva in precedenza. Ad assumersi il compito di chiudere questo gioiello vi è “Misty Mountain”, vale a dire gli Human League presi di forza dal ’79 e trasportati a bordo di una navicella del tempo sino all’anno delle contestazioni giovanili. È stupefacente in particolare percepire come la voce di Taylor sia insolitamente decadente, e anticipi, almeno nelle atmosfere, l’immaginario del synth pop più glamour.

Disco dall’influenza incalcolabile, “Silver Apples” suona ancora oggi spaventosamente moderno, imperniato com’è su tessuti sonori che siamo abituati ad ascoltare quotidianamente in questo inizio di terzo millennio.

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Voto degli utenti: 9,2/10 in media su 21 voti.

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ozzy(d) (ha votato 10 questo disco) alle 8:34 del 16 maggio 2007 ha scritto:

capolavoro

puro genio tra questi solchi, ottima recensione

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 17:24 del 27 aprile 2008 ha scritto:

...

accipicchia!

Hexenductionhour (ha votato 10 questo disco) alle 19:06 del 25 luglio 2008 ha scritto:

Capolavoro, di gruppi come questo se ne trovano pochissimi, sono casi più unici che rari, il loro album d'esordio può essere considerata una fonte inesauribile di idee, una vera e propria gemma in un mare piatto di gruppi con poche idee.

loson (ha votato 10 questo disco) alle 15:13 del 21 giugno 2009 ha scritto:

Pure fucking genious!

Bellerofonte (ha votato 9 questo disco) alle 14:08 del 28 aprile 2010 ha scritto:

ma...

come fa quest'album ad essere del 68!!!!!!!!

Zeman (ha votato 10 questo disco) alle 11:55 del 2 settembre 2012 ha scritto:

I Suicide devono molto ai Silver Apples.

Utente non più registrato alle 14:01 del 11 giugno 2013 ha scritto:

Ancora una volta viene dimostrato quanto fossero avanti alcuni gruppi dell'Epoca...

Utente non più registrat (ha votato 7,5 questo disco) alle 23:20 del 9 settembre 2019 ha scritto:

Vabbè, anticipatore di new wave e sinth-pop quanto si vuole ma, insomma, l'album è spesso noioso e inconcludente (non banale! ma "fiacchetto" sì). Insomma tutto sto fioccare di 9 e di 10 mi sembra alquanto inopportuno.

Vabbè, probabilmente se magna un qualunque disco dei Depeche Mode, ma lì è come vincere una partita a scacchi contro tua nonna e quindi non conta granché. Ad ogni modo: Lovefingers e Dust le "canzoni" più memorabili