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6/10

KoMaRa

KoMaRa

Nel recente mini tour europeo dei King Crimson, conclusosi lo scorso mese con la doppia data di Utrecht, la sfinge di Robert Fripp si è presentata al pubblico con un micidiale assetto a sette, comprensivo di tre batteristi: Gavin Harrison, Bill Rieflin e, naturalmente, Pat Mastelotto. È, almeno a livello mediatico, il progetto principale su cui siano state convogliate le energie di quest’ultimo, una vita spesa sui palchi e in studio, a firmare il proprio contributo su una quantità inenarrabile di side projects. Il 2015 non ha motivo di fare eccezione: pertanto, assunta l’impossibilità di seguirli tutti con la stessa minuzia di cui ci si vorrebbe sempre far vanto, vale comunque la pena spendere due parole sui più interessanti. Riparleremo a breve di “Inflamed Rides” degli O.R.k., esordio del supergruppo compartecipato da Lorenzo Esposito Fornasari (Obake, Berserk!, compositore unico della “Saga” di Giovanni Lindo Ferretti), Colin Edwin (Porcupine Tree, Metallic Taste Of Blood) e Carmelo Pipitone (Marta Sui Tubi), concentrandoci piuttosto, in questa sede, sull’omonimo first act dei KoMaRa.

Dove si posizioni Mastelotto, nella sequenza dei musicisti coinvolti, è piuttosto chiaro. Non casuale è la sua centralità rispetto alla Ka del giovane chitarrista slovacco David Kollár e alla Ra dell’italianissimo trombettista Paolo Raineri: non c’è una sola dinamica, di queste dieci tracce (otto, a ben guardare: due fungono da semplici intermezzi), che non passi per l’inconfondibile, ibrido battito dell’iperattivo percussionista di Chico, California. Tutta la maestria di un tocco ad un tempo complesso e ricchissimo (nelle scansioni ritmiche, nelle colorazioni timbriche, nelle continue variazioni in corso d’opera) è percepibile da subito, quando calano le mannaie industrial di “Dirty Smelly”. Il riff principale suonato da Kollár è uno straniato relitto figlio della copula tra Skinny Puppy e (ma va?) gli ultimi Crimson, altezza indicativa “The Power To Believe”: una sequenza fluida e piuttosto semplice, distrutta da violente sollecitazioni elettroniche, un’incandescente colata harsh noise che alza, inevitabilmente, il tiro. In “God Has Left This Place” sono invece le suggestioni cool della tromba di Raineri a finire sotto il fuoco incrociato del Kollár manipolatore, quasi un Bernocchi della nuova generazione.

Se l’alchimia del power trio è magmatica, a tratti prodigiosa (si ammiri il vaporizzarsi delle misteriose suggestioni etniche di “Pasquinade” in uno spettacolare risolidificarsi metallico, con gli estatici fraseggi di Raineri a disegnare flagranti ghirigori), è il risultato complessivo di KoMaRa a dimostrarsi poco fluido, ermetico oltre ogni misura. “37 Forms” è una jam distonica, slabbrata, che naviga a vista, smarrendosi tra isolazionismo avant-jazz e temerari rivoltolamenti neo-prog: quella che un tempo si sarebbe definita magnifica incompiuta. L’indiscutibile fascino lirico di “She Sat In Black Silt” (Fennesz meets Van Der Graaf Generator: altro spunto di massimo interesse) non riesce a trovare una valida sponda nel furibondo contorcersi finale di “Afterbirth”, né negli spasmi dub che attanagliano la sinuosa “A Collision Of Fingerprints” (eccessivamente frammentaria) né, tantomeno, nell’oscuro bozzetto di “2cfac”. La scrittura sembra così procedere per strappi, evocazioni, singoli passaggi. Il rischio, concreto e a tratti concretizzatosi, è che – invece di spiccare sulla media generale – questi si possano confondere in un disegno privo di netti contorni, di decise direzioni.

Nota di colore in chiusura: la cover – ma c’era forse bisogno di specificarlo? – è stata disegnata e realizzata da Adam Jones, chitarrista e mente artistica dei Tool. Una promessa, più che un’indicazione.

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