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R Recensione

6,5/10

John Zorn

Simulacrum

Si pensi all’immensa opera di John Zorn (1973-2015: quarantadue anni) come ad un’unica, maestosa ragnatela. Ogni brano, superfluo che possa sembrare, ne rappresenta un filo: sottile, fragile, impalpabile nell’insieme, ma al contempo essenziale ed irrinunciabile per la geometria e l’equilibrio finali. Migliaia e migliaia di fibre che si dipartono, in ogni direzione, sfuggendo dal centro ed al centro ritornando. Nulla è dato a caso, nulla nasce per caso, nulla si muove a caso. Qualsivoglia progetto è l’evoluzione concettuale di un pensiero pregresso che, a tempo debito, esaurite le sue potenzialità, abbraccerà la propria decomposizione, così fertilizzando terre pronte a raccogliere nuovi spunti, nuove invenzioni. Forniamo, di seguito, qualche esempio.

Senza il minimalismo di SoHo, vissuto e suonato freneticamente dal giovane Zorn dei primissimi anni ’70, sono impensabili opere ostiche e provocatorie come i “First Recordings 1973” (1995), il disturbante “Songs From The Hermetic Theatre” (2001) o la recente trilogia di improvvisazioni organistiche etichettate “The Hermetic Organ” (2012, 2013, 2015). Book Of Angels (ma bisognerebbe già parlare di Book Of Beriah e di Bagatelles…) amplia ed arricchisce, evidentemente, l’esperienza Masada, i cui prodromi musicali possono essere parimenti rintracciati in “Kristallnacht” (registrato tra il 9 e il 10 novembre del 1992, rilasciato nel 1993) e, soprattutto, in quelle sessioni del luglio dello stesso anno che diedero origine alla colonna sonora dell’adrenalinico hard boiled Thieves Quartet (dodici brani poi raccolti in “FilmWorks III: 1990-1995”). Stanchi ed oberati dall’iperproduzione easy listening degli ultimi anni? Prendetevela con il terzo volume della Music Romance Series, “The Gift” (2001): anzi no, con “Pueblo”, pezzo forte della soundtrack di Waste, corto di Kim Su Theiler (presente su “FilmWorks IV: S&M + More”, 1996); anche se la madre di tutta l’exotica rimane pur sempre lo storico “The Big Gundown” (1985). I sette dischi di Moonchild? Facile, con alle spalle “IAO – Music In Sacred Light” (2002), per non retrocedere poi ai Naked City e, ancora più indietro, a “News For Lulu” (1988), alle file cards o ai game pieces

Rimaniamo, funzionalmente, su Moonchild. L’ultima prova in studio di un gruppo pensato come trio (Joey Baron + Trevor Dunn + Mike Patton: correva il 2006 e l’“esordio” – si fa per dire – era proprio “Moonchild: Songs Without Words”) ed allargatosi sino a nove elementi (nel fantastico “Six Litanies For Heliogabalus”, 2007, entravano in azione anche Zorn, Ikue Mori ai laptop, Jamie Saft all’organo e le tre voci femminili di Martha Cluver, Abby Fischer e Kirsten Sollek) fu il da noi recensito “The Last Judgment”, del novembre 2014. Giovane virgulto in piena fioritura dalle radici combuste di una straordinaria esplorazione del metal come asperità ed ossessività ritmica appare, oggi, Simulacrum, un power trio strumentale che ne condivide l’organista delle ultime prove (John Medeski) qui affiancato, tuttavia, dalla chitarra di Matt Hollenberg (Cleric.) e dalle pelli di Kenny Grohowski (già negli Abraxas di Shanir Ezra Blumenkranz). Pur senza volerlo, abbiamo rivelato altre due influenze importantissime del progetto. Gli eclettici tecnicismi di “Psychomagia”, un disco buono ma apparentemente minore ed isolato nella produzione zorniana, riprendono invero inusitato vigore in questi brani, quasi a sottolineare che nulla (ma proprio nulla!) va perduto. Ecco che il chitarrismo di Hollenberg – distorto, sconnesso e geometrico, ma non privo di coerenza e fluidità interna –  è un perfetto, precisissimo algoritmo klezmath in grado di adattarsi ad ogni situazione. Se da un lato Medeski firma le costruzioni melodiche più imponenti, dall’altro i suoi maligni stacchi modali e i grovigli di note in cui sembra strozzare il proprio strumento testimoniano di un’interpretazione bipolare. Quanto a Grohowski, la sua è una prova di pura espansività metallica, stilisticamente moderna (non vi sono le timbriche jazzistiche di Baron, per capirci) e tecnicamente devastante.

È necessario, tuttavia, ascoltare i lunghi brani di apertura e di chiusura per comprendere appieno quanto la scrittura di questo Zorn risenta dell’impostazione a “scaglioni” che ha caratterizzato, e reso famosi, i suoi game pieces. Le suite mancano, volutamente, di linearità: si procede, piuttosto, per microeventi, fiammate, cambi di stato e di umore, strappi e sussulti, increspature e voltolamenti di vario tipo. Si percepisce, pur non esplicitata, la figura di un gran burattinaio che, dalle quinte, manovri e gestisca il proprio teatro di marionette, giacché la musica non vive di vita propria: piuttosto, va esattamente dove si prevede. In quest’ottica, decisamente migliore, in quanto a naturalezza, il primo pezzo rispetto al secondo. “The Illusionist” (12:02) è un’odissea di tempi dispari continuamente giocati sull’affilatissimo rasoio del trilinguismo distorto-pulito-fraseggio free jazz, un compendio di shred slayeriani (imponente la sezione da 5:43 a 6:01, un wall of sound di death metal decadente come mai si era sentito prima), orientalismi crepuscolari, inusitati poliritmi e cabarettistici stacchi funk-surf, gli uni complementari ed opposti agli altri. “The Divine Comedy” (12:54) è parimenti valida, ma penalizzata da un’impostazione eccessivamente centrifuga, che ne disgrega la struttura senza offrire nulla in cambio. Il volume del colpo aumenta proporzionalmente all’asciugarsi delle durate: così che Medeski è libero di piazzare un’ouverture romantic-goth nel monolitico corpo industrial-groove di “Marmarath”, “Snakes And Ladders” colora di jewish music i primi Dillinger Escape Plan, “Alterities” inquina il genoma angelico dello Gnostic Trio con virus dodecafonici e “Paradigm Shift” (il vero gioiello di “Simulacrum”) spedisce i Rashanim a contatto coi Nile di “In Their Darkened Shrines”.

Simulacrum è il cantiere in cui approdano le esplorazioni più matematiche della penna di Zorn, ben oltre quelle pur pronunciate di Moonchild. Qualcosa si è nuovamente risvegliato: e a testimoniarlo non sarà tanto questo first act (perfettibile), quanto i due capitoli che seguiranno a strettissima distanza.

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