Tool
Fear Inoculum
I. Lantefatto
Premessa doverosa: se avessi potuto avere potere decisionale, non avrei mai voluto ascoltare un quinto disco dei Tool. Troppo grande il rischio, con in casa un convitato di pietra del genere, di ritrovarsi fra le mani il Chinese Democracy di turno, un colosso dai piedi dargilla. E per che cosa, poi, esattamente? Chi ama e segue i Tool si rende ben conto che tutto ciò che avevano da dire (e da dare) era, in fondo, già stato detto (e dato): con Ænima (per i più radicali), con Lateralus (per la maggioranza) o, addirittura, con 10,000 Days (per una frangia minoritaria, ma agguerrita). Inutile e avventato aspettarsi da un gruppo di ultracinquantenni lurgenza, lintensità, lardore dei venticinque. Non meno insensato, daltro canto, pretendere cambiamenti o addirittura svolte stilistiche oggi, in una fase di carriera che dopo aver assicurato alla storia i capolavori della maturità si dovrebbe limitare ad unordinaria e decorosa amministrazione con vista sui titoli di coda. Una classica e perniciosa situazione lose-lose, insomma, in cui a vincere è solo chi aspetta. Comè finita lo sappiamo tutti: a forza di aspettare, dopo anni di dichiarazioni sibilline a mezzo stampa e trucchi psicologici da consumati maestri, è infine arrivato il Disco invisibile, Fear Inoculum, con il suo carico di grottesco eppure impagabile feticismo anarcocapitalista (chi li ama li segua e li compri: nientaltro che lassunto della vecchia Hooker With A Penis, in fondo), lo stesso che permette a Maynard di degustare i vini di propria produzione nel bel mezzo di un live in cui dovrebbe essere protagonista. Ma questo, a ben vedere, è un altro discorso.
II. Il peso degli (ultimi) anni
Una delle principali differenze tra lapproccio al songwriting di Lateralus (2001) e quello di 10,000 Days (2006) era stata linterazione tra strumentali e cantato o, per meglio dire, la gerarchia di adattamento fra i membri: ordine che nel primo caso era andato dai testi alla musica e nel secondo era stato invece invertito (con risultati, per alcuni, inferiori alle aspettative). In questo senso, Fear Inoculum, nel rispettare il modus operandi del capitolo precedente, è un disco del tutto coerente. Per capire il perché di questa scelta dovremmo analizzare più da vicino la figura sempre sfuggente (e come tale giullaresca) del classe 1964 Maynard James Keenan. Lindisponente ragazzaccio che mandava tutti affanculo, che consigliava ai concittadini di Los Angeles di imparare a nuotare e paragonava i discografici a zecche succhiasangue è diventato stimato imprenditore, padre di famiglia, personaggio in vista della midclass liberal. È, soprattutto, diventato un altro musicista: sempre squisitamente provocatore, ma assai meno interessato alla platealità del gesto, in lento e costante movimento verso una forma altra di espressione altra. Questo qualcosaltro, chiamato Puscifer e inizialmente utilizzato come mero divertissement, col tempo è cresciuto, assumendo, con discreto successo (si veda Money $hot del 2015), i tratti di una vera e propria band. Gli A Perfect Circle, poi, al tempo già segnale di uninquietudine creativa che non poteva esaurirsi nei soli Tool, dati per dispersi dopo la diaspora di metà decennio 00 e ritornati invece a sorpresa, lanno scorso, con un dignitosissimo disco (Eat The Elephant) costruito per esibire ad hoc un nuovo modo di intendere la voce (volumetricamente, qualitativamente) rispetto ad un suono rinnovato quasi dalle fondamenta.
In tutto questo, appare più che mai evidente che la faccenda Tool sia oggi per Maynard, se non marginale, perlomeno secondaria, subordinata ai suoi interessi principali. Il ridimensionamento è chiaro in Fear Inoculum dove, su ottantasei minuti complessivi, Maynard occupa appena un terzo dello spazio disponibile, limitandosi a brevi e criptici interventi cantati che raddrizzano la portata delle melodie, preferendo poi ritirarsi nellombra delle tessiture strumentali. La questione, tuttavia, non è solamente di quanto si canta, ma anche e soprattutto di come: e a tal proposito, va detto, il sopracitato Eat The Elephant non può che riuscirne rafforzato, potendo vantare un importante diritto di prelazione sul Maynard di Fear Inoculum. Femmineo e salmodiante (Fear Inoculum), zigzagante e cosmico (Pneuma), delicato ed elegiaco (Culling Voices), uno strumento fonosimbolico tra gli strumenti: è un saggio che per fare rumore sussurra, questo Maynard, trasgredendo la parola data nella sola jam conclusiva (7empest), di cui si dirà ancora più avanti. Succede infine che, anche per liriche non sempre allaltezza della situazione (le metafore battagliere di Invincible, ad esempio, seppur chiaramente autobiografiche, sono bruttine e banalotte), quasi non si percepisce la non-presenza del cantato, si fa retrocedere in secondo piano lermeneutica del testo e ci si lascia semplicemente trasportare dalla musica suonata: grandemente aiutati, a tal proposito, dalla nuova impostazione mantenuta dal gruppo.
III. Sei, sessanta, seicento corde
A differenziare da sempre Adam Jones dalla maggioranza dei chitarristi prog metal, oltre che fonti ispiratrici chiaramente idiosincratiche, è ladozione di uno stile sobrio e asciutto, che rifugge qualsiasi tipo di virtuosismo. Chitarristicamente parlando, Fear Inoculum registra un ulteriore passo in avanti nella ricerca del perfetto minimalismo: a scomparire dalla scena sono tutte quelle distorsioni aggiunte che avevano regalato a 10,000 Days la sua tipica quadratura metallica. Se fossero confermate le voci che vedono nelloriginaria volontà di Jones la realizzazione di ununica gargantuesca suite di ottanta minuti, anche questa scelta troverebbe una sua profonda giustificazione, armonizzandosi con la defilata discrezione di Maynard. Più che un disco di strofe e ritornelli, Fear Inoculum si costruisce sullastrazione, su unidea di flusso ambientale che per funzionare deve sfruttare appieno le dinamiche di crescendo e decrescendo e smussare le differenze specifiche tra i singoli brani. Da qui, ad esempio, limpressione (divenuta già piuttosto comune tra gli ascoltatori di questi giorni) di ascoltare un disco che non raggiunge mai il punto di rottura, che si ferma un attimo prima dellesplosione, che non prende mai fuoco. Esemplificativo il refrain della title track, predestinata confluenza delle tensioni tribali delle strofe, la cui ridotta volumetria chitarristica, tuttavia, fa pensare piuttosto ad un inciso di raccordo: il brano prende il volo solo nellultimo minuto e mezzo, in una coda che, compressa tra giganteschi riff post-industrial e assoli blues, cita le apocalissi di The Grudge.
Le cose, in verità, sono più complesse di come vengono presentate e la natura della discrasia, più che qualitativa, è quantitativa. Di passaggi scorticanti la sei corde di Jones ne dispensa comunque parecchi e ad enumerarli tutti si rischia persino di far torto a qualcuno. Si ascolti in liturgico silenzio, ad esempio, il climax chitarristico che emerge dagli strati di synth di Pneuma (Pneuma / Reach out and beyond / Wake up, remember / We are born of one breath, one word / We are all one spark, eyes full of wonder) e che esplode nella schiumante ripresa metallica del riff portante (quasi una Schism epilettica). Ancora, le ruvidità soundgardeniane che emergono alla distanza nella diaristica Culling Voices (Psychopathy / Dont you dare point that at me [ ] / Psychopathy / Misleading me over and over and over). Per non citare poi lesempio più eclatante, la conclusiva jam hard-grunge di 7empest (15:43), una bordata elettrica che sguscia da un nocciolo di arpeggi vagamente crimsoniani (torna in mente Frame By Frame) e si abbatte con furia animalesca, dando tuttavia limpressione di essere da un lato poco più di uno stizzito prodotto da fan service (echi della Swamp Song di undertowiana memoria) e dallaltro di eccedere nelle lungaggini (Jones spende e spande e, per assurdo, qualche sua sezione solista poteva qui essere sforbiciata senza alcun detrimento). Se laggressività non emerge con nitidezza è, piuttosto, per merito (colpa?) di un mood generale che incardina il ruolo delle distorsioni in un quadro assai più ampio, decentrandone limportanza in favore di una densità psichedelica mai così totalizzante.
IV. Groove e pupe
La definizione che crediamo calzi maggiormente addosso a Fear Inoculum è heavydelico. Spirituale, magmatico, riflessivo, maturo, complesso tutte etichette che riescono a catturare singoli frammenti dellinsieme, senza però riuscire a spiegare la natura delle interazioni fra le sue componenti. Il segreto sta nella sezione ritmica di Justin Chancellor e, soprattutto, Danny Carey, qui forse (ci sbilanciamo) alla prova migliore e più imponente della sua intera carriera. Incredibile quanto un disco così poco urlato e superficialmente abrasivo possa vantare uno scheletro ritmico così pervasivo e dinamico, una polimorfa costante che per alchimia, profondità e sfaccettature richiederebbe quasi un approfondimento a parte. Aldilà di alcuni preziosismi concettuali, come il ricorso simbolico al numero 7 (la maggior parte dei tempi dispari sono in 7 o multipli: 7 è anche il numero dei brani lunghi, oltre che il riferimento tematico occulto dellintero Fear Inoculum), ad impressionare è la metronomica infallibilità che caratterizza linterplay lungo tutto il disco, con un picco evidente in alcuni suoi frangenti. Qui in mente non si hanno tanto i virtuosismi percussionistici sbandierati a bella posta nel divertissement elettronico di Chocolate Chip Trip (quasi un inciso ad personam), quanto gli straordinari ventisei minuti centrali composti da Invincible e Descending (in cui sfociano le apnee dark ambient di Legion Inoculant, con un ribaltamento di prospettiva del testo di Fear Inoculum).
La maglia di arpeggi su cui si innesta la narrazione di Invincible è già indimenticabile: un rigoroso studio geometrico che riesce a far convivere cerebralità post rock, leggere patinature acide e aperture armoniche di tradizione americana. Perfettamente sincronizzata è lentrata dei metallofoni di Carey, del basso di Chancellor e della voce di Maynard: col passare dei minuti il brano si evolve naturalmente in un unico blocco, rallenta a dovere il ritmo (tra synth e armonici naturali, fa capolino addirittura un vocoder) e infine precipita, abbattendosi in un breakdown dalla forza paragonabile a quello di Jambi. Per Descending, poi, obbligatorie sono le cuffie: è il pattern batteristico di Carey, dai mille riflessi timbrici e in costante evoluzione, a dettare le dinamiche dellintera composizione, innescando lascensione drammatica che prende vita al traguardo dei sei minuti, contrappuntando il successivo talkin solo di Jones (dove Gilmour incontra lAfrica nera ) e mappando lultima esaltante fase (Jones introduce qui un nuovo e splendido fraseggio in tono con i misticismi heavy di Wings For Marie, Pt. 2) con un instancabile lavoro di tam tam e doppio pedale. Tredici minuti e mezzo che si contraggono in un atomismo irrappresentabile, un viaggio incredibile e irripetibile: in breve, uno dei cinque migliori brani mai scritti dai Tool.
V. No hay banda Epilogo?
Limpossibilità di mantenere una certa imparzialità di giudizio quando si converge sui quattro di Los Angeles ha già diviso le legioni di ascoltatori: gli esaltati a prescindere per cui Fear Inoculum è un capolavoro, gli ipercritici per cui Fear Inoculum non vale un secondo dei tredici anni dattesa (verrebbe da chiosare: parlarne bene o male, limportante è che se ne parli ). La verità, come spesso accade, sta nel mezzo: Fear Inoculum non è certo un capolavoro (pazzo o incosciente, daltronde, chi se lo aspettasse), paga un apparato lirico debole e un gran finale fuori contesto, ma è un ottimo disco, forse il migliore che ci si potesse aspettare dai Tool in questo momento storico. È, sopra ogni cosa, un lavoro che testimonia fedelmente la progressione di Keenan, Jones, Chancellor e Carey come uomini e come band, che ne fotografa con precisione uno stato mentale e artistico diverso e complementare rispetto al passato (pure presente, e come tale ampiamente citato). I ventenni scioccati da Undertow si stanno pian piano avvicinando alla mezza età: e questa è musica che invecchia come loro, assieme a loro. Che un ulteriore disco arrivi o meno in futuro, il complimento sincero e meritato rimane.
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