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R Recensione

7/10

Tool

Fear Inoculum

         I.            L’antefatto

Premessa doverosa: se avessi potuto avere potere decisionale, non avrei mai voluto ascoltare un quinto disco dei Tool. Troppo grande il rischio, con in casa un convitato di pietra del genere, di ritrovarsi fra le mani il “Chinese Democracy” di turno, un colosso dai piedi d’argilla. E per che cosa, poi, esattamente? Chi ama e segue i Tool si rende ben conto che tutto ciò che avevano da dire (e da dare) era, in fondo, già stato detto (e dato): con “Ænima” (per i più radicali), con “Lateralus” (per la maggioranza) o, addirittura, con “10,000 Days” (per una frangia minoritaria, ma agguerrita). Inutile e avventato aspettarsi da un gruppo di ultracinquantenni l’urgenza, l’intensità, l’ardore dei venticinque. Non meno insensato, d’altro canto, pretendere cambiamenti o addirittura svolte stilistiche oggi, in una fase di carriera che – dopo aver assicurato alla storia i capolavori della maturità – si dovrebbe limitare ad un’ordinaria e decorosa amministrazione con vista sui titoli di coda. Una classica e perniciosa situazione lose-lose, insomma, in cui a vincere è solo chi aspetta. Com’è finita lo sappiamo tutti: a forza di aspettare, dopo anni di dichiarazioni sibilline a mezzo stampa e trucchi psicologici da consumati maestri, è infine arrivato il Disco invisibile, “Fear Inoculum”, con il suo carico di grottesco eppure impagabile feticismo anarcocapitalista (chi li ama li segua e li compri: nient’altro che l’assunto della vecchia “Hooker With A Penis”, in fondo), lo stesso che permette a Maynard di degustare i vini di propria produzione nel bel mezzo di un live in cui dovrebbe essere protagonista. Ma questo, a ben vedere, è un altro discorso.

       II.            Il peso degli (ultimi) anni

Una delle principali differenze tra l’approccio al songwriting di “Lateralus” (2001) e quello di “10,000 Days” (2006) era stata l’interazione tra strumentali e cantato o, per meglio dire, la gerarchia di adattamento fra i membri: ordine che nel primo caso era andato dai testi alla musica e nel secondo era stato invece invertito (con risultati, per alcuni, inferiori alle aspettative). In questo senso, “Fear Inoculum”, nel rispettare il modus operandi del capitolo precedente, è un disco del tutto coerente. Per capire il perché di questa scelta dovremmo analizzare più da vicino la figura sempre sfuggente (e come tale giullaresca) del classe 1964 Maynard James Keenan. L’indisponente ragazzaccio che mandava tutti affanculo, che consigliava ai concittadini di Los Angeles di imparare a nuotare e paragonava i discografici a zecche succhiasangue è diventato stimato imprenditore, padre di famiglia, personaggio in vista della midclass liberal. È, soprattutto, diventato un altro musicista: sempre squisitamente provocatore, ma assai meno interessato alla platealità del gesto, in lento e costante movimento verso una forma altra di espressione altra. Questo qualcos’altro, chiamato Puscifer e inizialmente utilizzato come mero divertissement, col tempo è cresciuto, assumendo, con discreto successo (si veda “Money $hot” del 2015), i tratti di una vera e propria band. Gli A Perfect Circle, poi, al tempo già segnale di un’inquietudine creativa che non poteva esaurirsi nei soli Tool, dati per dispersi dopo la diaspora di metà decennio ’00 e ritornati invece a sorpresa, l’anno scorso, con un dignitosissimo disco (“Eat The Elephant”) costruito per esibire ad hoc un nuovo modo di intendere la voce (volumetricamente, qualitativamente) rispetto ad un suono rinnovato quasi dalle fondamenta.

In tutto questo, appare più che mai evidente che la faccenda Tool sia oggi per Maynard, se non marginale, perlomeno secondaria, subordinata ai suoi interessi principali. Il ridimensionamento è chiaro in “Fear Inoculum” dove, su ottantasei minuti complessivi, Maynard occupa appena un terzo dello spazio disponibile, limitandosi a brevi e criptici interventi cantati che raddrizzano la portata delle melodie, preferendo poi ritirarsi nell’ombra delle tessiture strumentali. La questione, tuttavia, non è solamente di quanto si canta, ma anche e soprattutto di come: e a tal proposito, va detto, il sopracitato “Eat The Elephant” non può che riuscirne rafforzato, potendo vantare un importante diritto di prelazione sul Maynard di “Fear Inoculum”. Femmineo e salmodiante (“Fear Inoculum”), zigzagante e cosmico (“Pneuma”), delicato ed elegiaco (“Culling Voices”), uno strumento fonosimbolico tra gli strumenti: è un saggio che per fare rumore sussurra, questo Maynard, trasgredendo la parola data nella sola jam conclusiva (“7empest”), di cui si dirà ancora più avanti. Succede infine che, anche per liriche non sempre all’altezza della situazione (le metafore battagliere di “Invincible”, ad esempio, seppur chiaramente autobiografiche, sono bruttine e banalotte), quasi non si percepisce la non-presenza del cantato, si fa retrocedere in secondo piano l’ermeneutica del testo e ci si lascia semplicemente trasportare dalla musica suonata: grandemente aiutati, a tal proposito, dalla nuova impostazione mantenuta dal gruppo.

     III.            Sei, sessanta, seicento corde

A differenziare da sempre Adam Jones dalla maggioranza dei chitarristi prog metal, oltre che fonti ispiratrici chiaramente idiosincratiche, è l’adozione di uno stile sobrio e asciutto, che rifugge qualsiasi tipo di virtuosismo. Chitarristicamente parlando, “Fear Inoculum” registra un ulteriore passo in avanti nella ricerca del perfetto minimalismo: a scomparire dalla scena sono tutte quelle distorsioni aggiunte che avevano regalato a “10,000 Days” la sua tipica quadratura metallica. Se fossero confermate le voci che vedono nell’originaria volontà di Jones la realizzazione di un’unica gargantuesca suite di ottanta minuti, anche questa scelta troverebbe una sua profonda giustificazione, armonizzandosi con la defilata discrezione di Maynard. Più che un disco di strofe e ritornelli, “Fear Inoculum” si costruisce sull’astrazione, su un’idea di “flusso” ambientale che per funzionare deve sfruttare appieno le dinamiche di crescendo e decrescendo e smussare le differenze specifiche tra i singoli brani. Da qui, ad esempio, l’impressione (divenuta già piuttosto comune tra gli ascoltatori di questi giorni) di ascoltare un disco che non raggiunge mai il punto di rottura, che si ferma un attimo prima dell’esplosione, che non prende mai fuoco. Esemplificativo il refrain della title track, predestinata confluenza delle tensioni tribali delle strofe, la cui ridotta volumetria chitarristica, tuttavia, fa pensare piuttosto ad un inciso di raccordo: il brano prende il volo solo nell’ultimo minuto e mezzo, in una coda che, compressa tra giganteschi riff post-industrial e assoli blues, cita le apocalissi di “The Grudge”.

Le cose, in verità, sono più complesse di come vengono presentate e la natura della discrasia, più che qualitativa, è quantitativa. Di passaggi scorticanti la sei corde di Jones ne dispensa comunque parecchi e ad enumerarli tutti si rischia persino di far torto a qualcuno. Si ascolti in liturgico silenzio, ad esempio, il climax chitarristico che emerge dagli strati di synth di “Pneuma” (“Pneuma / Reach out and beyond / Wake up, remember / We are born of one breath, one word / We are all one spark, eyes full of wonder”) e che esplode nella schiumante ripresa metallica del riff portante (quasi una “Schism” epilettica). Ancora, le ruvidità soundgardeniane che emergono alla distanza nella diaristica “Culling Voices” (“Psychopathy / Don’t you dare point that at me […] / Psychopathy / Misleading me over and over and over”). Per non citare poi l’esempio più eclatante, la conclusiva jam hard-grunge di “7empest” (15:43), una bordata elettrica che sguscia da un nocciolo di arpeggi vagamente crimsoniani (torna in mente “Frame By Frame”) e si abbatte con furia animalesca, dando tuttavia l’impressione di essere da un lato poco più di uno stizzito prodotto da fan service (echi della “Swamp Song” di undertowiana memoria) e dall’altro di eccedere nelle lungaggini (Jones spende e spande e, per assurdo, qualche sua sezione solista poteva qui essere sforbiciata senza alcun detrimento). Se l’aggressività non emerge con nitidezza è, piuttosto, per merito (colpa?) di un mood generale che incardina il ruolo delle distorsioni in un quadro assai più ampio, decentrandone l’importanza in favore di una densità psichedelica mai così totalizzante.

    IV.            Groove e pupe

La definizione che crediamo calzi maggiormente addosso a “Fear Inoculum” è heavydelico. Spirituale, magmatico, riflessivo, maturo, complesso… tutte etichette che riescono a catturare singoli frammenti dell’insieme, senza però riuscire a spiegare la natura delle interazioni fra le sue componenti. Il segreto sta nella sezione ritmica di Justin Chancellor e, soprattutto, Danny Carey, qui forse (ci sbilanciamo) alla prova migliore e più imponente della sua intera carriera. Incredibile quanto un disco così poco urlato e superficialmente abrasivo possa vantare uno scheletro ritmico così pervasivo e dinamico, una polimorfa costante che – per alchimia, profondità e sfaccettature – richiederebbe quasi un approfondimento a parte. Aldilà di alcuni preziosismi concettuali, come il ricorso simbolico al numero 7 (la maggior parte dei tempi dispari sono in 7 o multipli: 7 è anche il numero dei brani “lunghi”, oltre che il riferimento tematico occulto dell’intero “Fear Inoculum”), ad impressionare è la metronomica infallibilità che caratterizza l’interplay lungo tutto il disco, con un picco evidente in alcuni suoi frangenti. Qui in mente non si hanno tanto i virtuosismi percussionistici sbandierati a bella posta nel divertissement elettronico di “Chocolate Chip Trip” (quasi un inciso ad personam), quanto gli straordinari ventisei minuti centrali composti da “Invincible” e “Descending” (in cui sfociano le apnee dark ambient di “Legion Inoculant”, con un ribaltamento di prospettiva del testo di “Fear Inoculum”).

La maglia di arpeggi su cui si innesta la narrazione di “Invincible” è già indimenticabile: un rigoroso studio geometrico che riesce a far convivere cerebralità post rock, leggere patinature acide e aperture armoniche di tradizione americana. Perfettamente sincronizzata è l’entrata dei metallofoni di Carey, del basso di Chancellor e della voce di Maynard: col passare dei minuti il brano si evolve naturalmente in un unico blocco, rallenta a dovere il ritmo (tra synth e armonici naturali, fa capolino addirittura un vocoder) e infine precipita, abbattendosi in un breakdown dalla forza paragonabile a quello di “Jambi”. Per “Descending”, poi, obbligatorie sono le cuffie: è il pattern batteristico di Carey, dai mille riflessi timbrici e in costante evoluzione, a dettare le dinamiche dell’intera composizione, innescando l’ascensione drammatica che prende vita al traguardo dei sei minuti, contrappuntando il successivo talkin’ solo di Jones (dove Gilmour incontra l’Africa nera…) e mappando l’ultima esaltante fase (Jones introduce qui un nuovo e splendido fraseggio in tono con i misticismi heavy di “Wings For Marie, Pt. 2”) con un instancabile lavoro di tam tam e doppio pedale. Tredici minuti e mezzo che si contraggono in un atomismo irrappresentabile, un viaggio incredibile e irripetibile: in breve, uno dei cinque migliori brani mai scritti dai Tool.

      V.            No hay banda – Epilogo?

L’impossibilità di mantenere una certa imparzialità di giudizio quando si converge sui quattro di Los Angeles ha già diviso le legioni di ascoltatori: gli esaltati a prescindere per cui “Fear Inoculum” è un capolavoro, gli ipercritici per cui “Fear Inoculum” non vale un secondo dei tredici anni d’attesa (verrebbe da chiosare: parlarne bene o male, l’importante è che se ne parli…). La verità, come spesso accade, sta nel mezzo: “Fear Inoculum” non è certo un capolavoro (pazzo o incosciente, d’altronde, chi se lo aspettasse), paga un apparato lirico debole e un gran finale fuori contesto, ma è un ottimo disco, forse il migliore che ci si potesse aspettare dai Tool in questo momento storico. È, sopra ogni cosa, un lavoro che testimonia fedelmente la progressione di Keenan, Jones, Chancellor e Carey come uomini e come band, che ne fotografa con precisione uno stato mentale e artistico diverso e complementare rispetto al passato (pure presente, e come tale ampiamente citato). I ventenni scioccati da “Undertow” si stanno pian piano avvicinando alla mezza età: e questa è musica che invecchia come loro, assieme a loro. Che un ulteriore disco arrivi o meno in futuro, il complimento – sincero e meritato – rimane.

V Voti

Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 5 voti.
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PehTer 8/10
zagor 8/10
luca.r 6/10
Dengler 9,5/10

C Commenti

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PehTer (ha votato 8 questo disco) alle 2:18 del 6 settembre 2019 ha scritto:

Recensione da genuflessione, come penso chiunque frequenti il sito si aspettasse. Sul disco ho espresso nel forum le mie perplessità iniziali, purtroppo non ho avuto il tempo materiale (e ancora non lo avrò per un po' di giorni) di ascoltarlo altre volte, prometto che entro il prossimo week end tornerò con un giudizio e un voto definitivi.

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 12:10 del 6 settembre 2019 ha scritto:

perchè da genuflessione? è una analisi onesta e dettagliata, con voto anche inferiore a quello della media che si vede in giro ( a parte p4k e affini che non capiscono un tubo di rock coem risaputo).

PehTer (ha votato 8 questo disco) alle 12:24 del 6 settembre 2019 ha scritto:

Perché mi è piaciuta particolarmente, sono io a genuflettermi

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 12:46 del 6 settembre 2019 ha scritto:

ahahahaah, ho capito male io allora sorry. concordo ovviamente, ave Marco!

PehTer (ha votato 8 questo disco) alle 19:28 del 6 settembre 2019 ha scritto:

In effetti sono stato ambiguo, l'orario e il tasso alcolico non mi erano favorevoli in quel momento ahahhaha

tramblogy alle 8:40 del 6 settembre 2019 ha scritto:

sono troppo vecchio per ascoltare musica lunga 10 minuti a pezzo, medio...."ma guarda che dentro un pezzo ci sono altri pezzi, è come ascoltare 3 canzoni in una botta sola"...., già me li immagino gli assoli di chitarra fine a se stesse , ggnnnnaaauooommmmmmm......gggoooooaaaaaauuuuummmm.........e poi..gli intervallini tra un trakkone a l'altr...zzzzzzzzzzzzzzzzzzz

PehTer (ha votato 8 questo disco) alle 8:51 del 6 settembre 2019 ha scritto:

Non capisco se sia una trollata o un commento serio, anche perché in nessun disco dei Tool "dentro un pezzo ci sono altri pezzi" e mai ci sono "assoli fine a se stessi ggnnnaaauoooommmm". Sono semplicemente brani lunghi che non seguono la struttura convenzionale strofa-ritornello e con una certa predilezione verso i tempi "storti". Comunque I Tool hanno 55/56 anni a testa, non so se tu sia poi così "più vecchio".

tramblogy alle 14:27 del 6 settembre 2019 ha scritto:

invece per me è così. chi sei? cosa vuoi?

PehTer (ha votato 8 questo disco) alle 19:27 del 6 settembre 2019 ha scritto:

Non sono nessuno e non voglio niente, era solo una considerazione

Utente non più registrat alle 16:59 del 6 settembre 2019 ha scritto:

Ah, quindi chi si aspettava un capolavoro dopo 13 anni di attesa era un incosciente o un pazzo.

Non per romperti sempre le bballe, Biasio, ma non mi piace mica tanto questa considerazione.

.

Per il resto, sono troppo ignorante per ascoltare l'album e farmi un idea seria, ma il mio raffinato senso del pregiudizio mi suggerisce che:

- si tratta di un album tutto sommato mediocre di musica abbastanza stereotipata, dove i Tool fanno la parte dei Tool, che non potrà che deludere i fan dopo tredici-fottuti-anni di attesa.

- i fan a cui sarà piaciuto lo gusteranno un paio di volte per poi abbandonarlo circa per sempre (tranne forse un paio di canzoni che farà piacere riascoltare) e torneranno ben presto a Ænima, Lateralus e magari riscopriranno pure Undertow.

- praticamente sono ormai come i Dream Theater: grande band con un glorioso passato che non riesce praticamente più ad andare oltre al compitino per i fan più accaniti.

.

Ripeto, sono tutti SOLO pregiudizi. Ma, modestamente, di pregiudizi sono un intenditore

barto250 alle 16:56 del 20 settembre 2019 ha scritto:

Se hai ascoltato gli altri album dei Tool un'idea te la puoi fare, anche se dare giudizi su un disco senza nemmeno ascoltarlo mi oare un azzardo. A me inizialmente non piaceva la title track, ma ascoltandola più volte il mjo giudizio è cambiato. Con i Tool bisogna avere pazienza.

barto250 alle 16:59 del 20 settembre 2019 ha scritto:

Dare un giudizio su un disco senza nemmeno averlo ascoltato mi sembra un azzardo. A me personalmente non piaceva la title track, ma ascoltandola meglio il mio giudizio è cambiato. Con i Tool bisogna avere pazienza.

PehTer (ha votato 8 questo disco) alle 19:02 del 15 settembre 2019 ha scritto:

Come promesso, torno dopo avere assimilato a dovere il disco con numerosi ascolti. Sono felicissimo di contraddire le mie cattive impressioni iniziali, l'album è cresciuto di volta in volta. Certamente non è privo di difetti, l'autoriciclo continua ad essere evidente (Pneuma, pur piacendomi assai è The Patient+Schism+Pushit), dall'altro lato la prova di Maynard, che avevo inizialmente giudicato tremenda trovo ora che si adatti meglio al mood più etereo e psichedelico di Fear Inoculum. Concordo in pieno con Marco quando dice che Carey e Chancellor hanno dato il meglio. Le mie preferite sono Invincible e Descending, quella che mi convince meno forse è proprio la title track.

"E con questo dichiaro conclusa la polemica tra me e il sottoscritto" (cit.)

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 12:39 del 19 settembre 2019 ha scritto:

Pneuma e Invicible due perle immani, Descending appena un gradino sotto...il resto ordinaria amministrazione. Tra 7 e mezzo e 8 per quanto mi riguarda, come sempre imprescindibile l'analisi di Marco.

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 13:27 del 18 ottobre 2019 ha scritto:

Pneuma dal vivo spacca!

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 0:06 del 21 marzo 2020 ha scritto:

bella la maglia di Danny.

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 0:11 del 21 marzo 2020 ha scritto:

cmq col tempo la mia preferita è diventata Culling voices. Alla fine mi ha del tutto conquistato, alzerei il voto lol.