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R Recensione

7/10

Eraldo Bernocchi, F.M. Einheit, Jo Quail

Rosebud

Di partnership importanti la lunga carriera di Eraldo Bernocchi è letteralmente intessuta, ma questa – non fosse altro che per le dinamiche che coinvolgono i nomi in ballo – ricopre un particolare interesse. Un disco come “Rosebud”, infatti, sembra ideato apposta per smuovere l’interesse analitico dell’ascoltatore. Qual è, ad esempio, il minimo comun denominatore che avvicina il manipolatore Bernocchi, il motore (a)ritmico degli Einstürzende Neubauten e una misconosciuta violoncellista inglese, autrice di tre dischi solisti completamente autoprodotti? Ancora: il trasparente riferimento a Citizen Kane (richiamato sia nel titolo del disco, sia nella terza “Xanadu”), considerata la generale ritrosia di Bernocchi a dissertare compiutamente di macro- e micropolitica, è casuale o metaforico? Infine: quanto di ciascun musicista è confluito nel risultato finale, quanto ciascun contributo è riuscito ad annullarsi negli altri, pur rimanendo perfettamente riconoscibile?

È lo stesso Bernocchi a rispondere alle prime due domande. Anzitutto, se la collaborazione artistica con F.M. Einheit – stretta una decina d’anni fa in occasione dell’estemporaneo progetto Black Engine – esplicita un’ammirazione personale che si può dire nascere con la stessa carriera del chitarrista milanese, il sodalizio con la brava Quail si sviluppa a partire da una curiosa ma non del tutto inattesa passione comune, il metal – scriviamo non del tutto inattesa, dato lo stile peculiare e il suono particolarmente corposo prediletti dalla violoncellista inglese. In secondo luogo, il richiamo wellsiano rispecchierebbe al meglio il complesso gioco di ruoli rinchiuso nel quadrilatero post-moderno che include poteri visibili e occulti, media e popolo: un ritorno del sommerso che, in questo caso, coincide con la rimozione o l’adulterazione della memoria storica. Il terzo quesito viene preso in carico da chi scrive: chi paventasse un disco a (rumorosa) trazione maschile, con sporadici interventi della terza incomoda, può rivedere i propri schemi di giudizio. È vero, i nomi sulla cover sono tenuti distinti, ma l’insieme ha la forza e la coesione di un corpo solo, di un vero e proprio gruppo.

Sebbene la potenza di fuoco del trio sia assolutamente incontrovertibile (le infestazioni industrial-sludge della summenzionata “Xanadu” sono messe a bella posta a testimoniarlo), a convincere maggiormente, in “Rosebud”, sono in realtà gli episodi meno convenzionali, composizionalmente meno predicibili. Molto bello è il contrasto fra le percussioni metalliche e l’esotico pattern di violoncello in 6/8 – mutuato, a detta degli autori, dalla gnawa marocchina – in “Kangoo”: quando entrano in scena anche gli arpeggi distorti di Bernocchi, il non plus ultra del minimalismo blues, si ottiene un effetto orchestrale quasi à la Jaga Jazzist. La pentatonica colpisce ancora più a fondo nei riverberi isolazionisti della successiva “A Moment” (il sogno americano sfregiato dall’attacco diretto dei feedback), mentre il raccoglimento chiesastico di “The Inquirer” si metamorfizza in una salmodiante tempesta elettrica. Il finale in crescendo, peraltro, rivela una tendenza implicita alla Ringkomposition, un chiaro legame con i dieci minuti d’apertura di “Bloom”, quasi ne costituisse un’anteprima e al contempo un completamento: dal canto suo, infatti, “Bloom” mette sul piatto un soundscape harsh dall’impatto deflagrante, dove i droni sfrigolano, la chitarra sgocciola un percolato più nero del nero e il violoncello di Jo Quail si dissolve in un ululato straziante ed immateriale (come una Julia Kent prestata alla scrittura di Cormac McCarthy).

Progetto centrato, innovativo, importante. Lo dico da neutro, spassionato appassionato: mi piacerebbe molto poter ascoltare, in un prossimo futuro, un degno successore di questo “Rosebud”.

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