V Video

R Recensione

6,5/10

Polyphia

New Levels New Devils

Sono molto giovani, estremamente dotati e ricolmi di quella supponenza che sola caratterizza i talenti fin troppo consapevoli di esserlo: inevitabile che, incappando anche solo per sbaglio in video del genere, la reazione istintiva sia quella di sfondare lo schermo per entrarvi dentro e farsi giustizia da sé. Poi sono la ragione, e la curiosità di rimettere a posto le apparenti anomalie, a prevalere: anche perché, a ben vedere, qualche motivo per approfondirne la conoscenza c’è. Utilizzando la tassonomia minima proposta dal compianto Mark Fisher, i Polyphia sono un gruppo estremamente eerie, poiché predicano a pieni polmoni la presenza di qualcosa che non dovrebbe esserci – non, almeno, in queste forme, in questa misura. L’essenza di questo qualcosa, che nel recente passato si era manifestato solo sporadicamente e in modalità embrionali, appare ora in tutto il suo terrificante ibridismo nel terzo full lengthNew Levels New Devils” – è risaputo infatti che da grandi poteri derivino non solo grandi responsabilità, ma anche grandi sogni di (vana)gloria.

La spacconeria, va detto, sembra pagare. Se l’ossessione per il preziosismo tecnico e il candore robotico della produzione di “Renaissance” (2016) – il disco con cui, apparentemente, il quartetto di Plano, Texas ha fatto breccia nel cuore di molti – potevano indurre a parlare di una rivisitazione moderna e un filo autoreferenziale di certo tech metal, “New Levels New Devils” mette da subito in chiaro che nessun incasellamento di comodo sarà possibile, nessuna facile concessione verrà vagliata. Una quadra approssimativa – per l’esuberante show off strumentale e una costante tendenza a segmentare riff melodici e ritmici nella maniera più imprevedibile ed irregolare concepibile – potrebbe essere tracciata fra il solito asettico tech e gli algebrici funambolismi dell’ultimo math rock, quello più narcisista e fusion, meno legato alla performance hardcore: così facendo, tuttavia, troppe variabili intermedie ne verrebbero ingiustamente escluse. Anzitutto il suono, manipolato e trattato in modo da scotomizzarne ogni asperità, sino a trasformarlo in gingillo postmoderno da dj set, EDM analogica per la generazione liquida: stupefacente l’abilità del gruppo di assemblare lick di inaudita complessità senza sacrificare un’oncia di commerciabilità – anzi, se possibile, ingigantendone il potenziale. Le ritmiche: un 4/4 pressoché costante, jazzistico nelle reticenze e nei vuoti del tocco, ma solidamente hip hop nell’impianto dei pattern, sballottati fra pelli bombastiche e supporti elettronici (pad, drum machine). L’approccio alla composizione, infine: virtuosistico e solipsistico, ma attentissimo a non trasgredire mai la forma canzone.

Fatto sta che, per quanto gli si giri intorno, non si sa bene come prendere un disco del genere. È tutta una grande truffa? E sia. Ma quanta fatica, teorica e argomentativa, per demolire un bolero maestoso come “O.D.”, il punto d’incontro impossibile tra i Crimson di “Islands” e i 65daysofstatic! L’inesauribile fantasia delle figure chitarristiche del math versione Stranger Things di “G.O.A.T.” vi fa crollare la mascella a terra? Comprensibile: ma è bene tenere a mente che nello stesso disco convivono anche le facilonerie dell’AOR chimico di “Rich Kids” (Harmony Korine forse fa in tempo ad inserirlo nella soundtrack del prossimo The Beach Bum) e una “Death Note” – con la terza chitarra di Ichika – che fa sembrare l’emo-anime di band come gli He un capolavoro di maturità. Le vocals filtrate e superpop di Cuco sui frattali armonici in perenne movimento di “So Strange” (che si regala pure un inaspettato bass drop trap oriented) vi mandano in confusione totale? Forse dovete ancora sentire l’esplosione del solismo neoclassico dell’ospite Jason Richardson in “Nasty”, un labirinto nip-hop pieno di anse melmose e angoli oscuri, o i sospiri vocoderizzati di Erick Hansel dei CHON sulla fusion-funk digitale di “Yas”. La vicinanza alla musica black è tanto più evidente nell’unico lento di tracklist, “Drown”, dove la chitarra aggiuntiva di Mateus Asato consente di creare uno scenario retrofuturistico tra Scale The Summit e Naia Izumi.

C’è chi lo elogerà senza mezze misure, ma l’entusiasmo delle generazioni postmoderne tende a durare lo spazio di qualche minuto: chi lo stroncherà voluttuosamente, forse perché non abbastanza aderente ad una norma ai più ormai incomprensibile. Tra il nero e il bianco, allora, la prima e migliore presentazione, quandanche apparisse timida, sta in qualche tonalità di grigio. Buon ascolto.

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