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6/10

Floored By Four

Floored By Four

Simone Cristicchi, l’ha sempre detto, vorrebbe essere come Biagio Antonacci: un sogno, nemmeno così scherzoso, che qualche hit malriuscita gli ha ricacciato in gola, assieme alle amare schegge di un forzato riciclo altrove. A quale sorte possono portare le utopie iperboliche… Io, ad esempio, mi accontenterei – si fa per dire – di essere amico di Mike Watt. Non dico proprio il confidente numero uno, ma insomma: e non per tornaconto personale, sia chiaro, quanto per capire. Cosa? Beh, ad esempio, com’è possibile che un pischello qualunque di San Diego, California, ad un passo dalle riarse frontiere messicane, sia diventato, nell’ordine, il motore pulsante di una delle più grandi band (hardcore) rock della storia, la mente continuativa di un progetto ai limiti della fusion ed il bassista di un gruppo che iniziava a solcare, con frammenti di vetro, le pagine della musica, nello stesso istante in cui lui probabilmente era impegnato a giocare ancora a campana (o a sostare sotto gli alberi, aspettando che, da un momento all’altro, gli piovesse fra le braccia D. Boon). Una progressione quasi inarrestabile.

C’è da dire, oltretutto, che Watt con gli amici è generoso. Ci avrei messo la mano sul fuoco da subito, anche senza sapere cosa ha dato origine alla sua nuova avventura musicale: la composizione di quattro linee di basso su cui far suonare il fedele Nels Cline, chitarrista dei Wilco, Yuka Honda, tastierista delle Cibo Matto, sé stesso e Dougie Bowne, batterista già in tour con Iggy Pop e John Cale. Un divertissement, con ogni probabilità: d’altro canto, quando mai l’uomo da un minuto più ritmico della terra non se l’è spassata come un bambino a comporre e suonare? Ad un certo punto, però, il progetto si trasforma: l’effimero si stabilizza, l’occasionale diviene regolare, con gradualità si arriva a pensare ad un disco vero e proprio. Che, puntuale, arriva: “Floored By Four”, registrato in appena tre giorni dall’omonimo supergruppo, racchiude la sensibilità melodica di quattro mondi fra loro così volutamente lontani.

Per massimizzare le geniali invenzioni del suo stile slegato e scomposto, il musicista californiano riempie di sfumature, contrappunti e improvvisi scarti ogni brano, approfittando anche di una loro naturale espansività. “Nels” vede fraseggiare Cline in anfratti fumosi e dilatati, alle prese con un magma psichedelico fortemente distonico ed avviluppato in monoliti free jazz, che si dipanano ordinatamente in una fitta coltre di effetti e vibrati. Un ascolto non propriamente facile, migliorato tuttavia dal piglio energico di “Yuka”, agèe soul, appesantito da scansioni blues, che si strascica attraverso possenti aperture hard rock, e soprattutto “Watt”, traballante surf al sapore esotico che riconferma al mondo tutta la fascinazione del bassista per le sincopi funk. È con “Dougie” che i nodi vengono al pettine, e non perché, tra questa masnada, il povero Bowne sia il meno accreditato: tutt’altro. Il tappeto esoterico delle sue pulsazioni, anzi, è forse l’elemento più accattivante di venti minuti stanchi e tirati, che si mordono la coda nel tentativo di dare continuità ad un veleggiante, truculento western gotico, con echi di doom e psychobilly. Certo, evoluzione impensabile per chi ha ancora in mente le rotondità del suono dei Minutemen, ma non per questo meglio costruita: i pilastri portanti, incapaci di tenere botta, si sfaldano dopo poco.

Non sarà certo un disco un po’ sottotono a farci cambiare idea sull’effettivo talento di Mike Watt, né su quello dei suoi sodali. Io, intanto, ambisco ancora ad un rapporto privilegiato con lui: e se per il compleanno mi facesse dono di una linea di basso?

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