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R Recensione

6/10

Scale The Summit

The Collective

Nessuna sbavatura, nessun eccesso, nessuna nota fuori posto. “The Collective”, il terzo disco del quartetto progressive metal statunitense Scale The Summit, è il catechismo dell’est modus in rebus, il campionario dell’inappuntabilità formale. L’andamento di gran parte degli undici movimenti, tutti completamente strumentali, è a tratti così perfetto e levigato da suscitare, persino nei cuori meno facilmente sommuovibili allo stupore estetico, una certa, vacua ed effimera meraviglia nella constatazione, francamente obiettiva, di come il classico gioco dei contrappesi non soffra di particolari gravità e non sia sbilanciato verso l’uno o l’altro fattore compositivo. Guitar hero di testa e di metodo. La cosa stride un po’, se si comincia a pensare che la Prosthetic-Red sia la stessa – piccola – label che ha attualmente sotto contratto i magnifici quattro Yakuza, gruppo certo indifferente ed anzi corrosivo verso la malattia del nitore apparente in grado di mettere in ginocchio le aspirazioni di troppi wannabe metallers. Un conflitto di attribuzione onestamente poco comprensibile.

Ma gli Scale The Summit, più che vorrei-essere, sono: sono nell’istante, nel momento storico e musicale. Sono la reazione metallica (ma sofisticata) di una frangia non sfoltita di musicisti, ascoltatori, fruitori di genere che alla contaminazione e alla sfrenata ibridazione intergenere, caratteristica topica dell’ultimo quindicennio di scorribande heavy, antepongono di gran lunga il gusto di quel libertarianesimo direttamente collegato ad un conservatorismo moderato, senza rigidezze. Così, il gruppo sceglie di legarsi ai numi tutelari del passato, flirta con la fusion, inevitabilmente è succube di qualche ostentato virtuosismo incanalato – magari, proprio per l’occasione – in dosi massicce di arzigogolata elettricità (la doppia cassa di “Gallows”, per fare un esempio) e si permette pure di rivendicare strette parentele con veri ed autentici rivoluzionari del loro tempo, come i Mastodon, un legame che, francamente, non lascia alcuna visibile traccia. Più semplice e complessa nel contempo è la loro proposta, spalmata su strutture grossomodo tra loro sempre similari (con qualche gradita eccezione, l’atmosferico ed intenso excursus post metal di “Black Hills” su tutte) delle quali si apprezza grandemente non la varietà di temi, ma l’impegnativo lavoro fatto convergere su sfumature e chiaroscuri, in memoria di una musica d’altri luoghi.

Ciò che rimane è il gradevole impatto di un gruppo coeso, vincente e creativo. Con il costante retrogusto, tuttavia, di assistere ad uno spettacolo in qualche modo incompleto, ad un talento importante ed impiegato a metà o, meglio, non convogliato su terreni di fertilità maggiore. Obiettivamente non v’è granché da eccepire sul frontale dissonante in carico e scarico di “Colossal”, sul distillato prog in tempi dispari di “Origin Of Species” e la sua ideale controparte “Emersion”, sulla scelta ben precisa di ripensare la gelida eleganza cibernetica dei Cynic, vent’anni dopo, in un’ottica più umanizzante, calorosa ed armonica (“Whales”, segmentata da un clamoroso assolo in tapping sulla chitarra a otto corde di Chris Letchford) o, addirittura, sul tentare di scompaginare la carte in ultima, gestendo “Drifting Figures” con un evidente intento math per poi lasciarla sfregiare, in coda, da rimasugli noise. Nonostante l’evidente preparazione tecnica, gli Scale The Summit riescono a schivare la madre di tutti i pericoli: il suonarsi addosso. Ancora, però, non evitano la conseguenza più deleteria: il suonare e basta. Piacevolezza a palate – alcuni passaggi, citerei personalmente “Balkan”, sono molto ben costruiti – ma comunicazione quasi assente.

Il che, per un gruppo metal del Nuovo Millennio, è un peccato praticamente imperdonabile.

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