Scale The Summit
V
Nella sua recente recensione di Divers, ultimo disco di Joanna Newsom, il nostro Matteo Losi cercava di capire se il suo moderato entusiasmo sommato allidiosincrasia per il precedente, triplo, Have One On Me non fosse dovuto alla sua estrema affezione non per lartista, ma per un suo lavoro particolare, lo straordinario Ys. Identico discorso, dalla parte di chi sta scrivendo in questo momento, può essere teorizzato per gli Scale The Summit, il volto pulito e benevolo del tech metal from Houston, Texas. Nulla, nella mia formazione musicale, avrebbe potuto interessarmi dei quattro giovani yankee: in nessun modo avrei avuto la possibilità di incrociarli, se non fortuitamente. Fortuito, pertanto, è stato lincontro col loro terzo The Collective (2011): fortuito lascolto di Whales; fortuito, ma subitaneo, e duraturo, il colpo di fulmine per quello straordinario assolo in tapping di Chris Letchford, un miracolo sincretico di abilità strumentistica e profondità emozionale.
Lì, in quella culla di ricordi e passioni tra loro intensamente intrecciate, si è arenata la riconoscenza intima per una musica, quella degli Scale The Summit, per il resto interamente devota allapparenza e al culto del virtuosismo, senza troppe concessioni al sottotesto. Il successivo The Migration (2013) si consegnava mani e piedi al funambolismo, enfiando smisuratamente il coefficiente tecnico di scrittura ed esecuzione dei brani ed interrompendo, de facto, ogni pertugio comunicativo tra musicisti ed ascoltatori. Non troppo meglio va, oggi, al didascalico V che, vista la brutta piega intrapresa, rimarrà probabilmente lultima nostra concessione alla loro musica (già si moltiplicano i progetti allorizzonte: dellanno scorso è il divertissement solista di Letchford, il jazzy Lightbox, mentre lanno prossimo arriverà quello elettronico, islnds, con il già annunciato History Of Robots). Pochi, pochissimi i reali momenti di interesse, in un fitto dialogo strumentale che tracima continuamente nella sbrodolatura, un songwriting ridotto allosso e una conduzione priva di nerbo, che tende ad appiattire le peculiarità insite in ogni brano: il gorgogliante basso di Mark Michell che, nel bel mezzo della fusion sonnolenta di Oort Cloud, si ritaglia un inaspettato siparietto dada (Primus e Cynic a bere un cordiale allo stesso tavolo), gli intrecci elettroacustici che è costretta ad inventarsi The Winged Bull (in un dibattersi prog metal dispendioso e, tutto sommato, inutile), le gabbie di arpeggi Seventies in cui la band cerca di incapsulare la materia incandescente di Pontus Euxinus (che in realtà procede esattamente nelle direzioni e con landatura desiderata ).
Il tutto, lo si è compreso, è massimamente autoreferenziale, permeato di quella gradevolezza che attira, ad un tempo, accondiscendenza (verso lautoriciclaggio, ad esempio: Stolas è letteralmente infarcita di lick tipici) e sonnolenza (ché il muso duro pirotecnico di Trapped In Ice, cui a ben poco giova una seconda metà astratta ed onirica, ricorda solo le peggiori epopee della masturbazione chitarristica degli anni 80 e 90). Blue Sun, poi, è pronta per essere confezionata come video didattico per wannabe Petrucci: almeno il tono solare di The Golden Bird, nonostante le solite inutili montagne di tecnicismi, aiuta a contenere la logorrea. Pensare, solamente, a quali e quanti traguardi avrebbero potuto tagliare, gli Scale The Summit, con le loro capacità!
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