V Video

R Recensione

7,5/10

Staer

Daughters

Lì è il monolite, la nereggiante altura di s(t)erpi. A queste latitudini, l’inferno. Se c’è una band, oggi, che sintetizza al meglio la creatività ludica applicata – senza apparente difficoltà – alla scienza dell’iconoclastia noise, questi sono gli Staer, da noi già segnalati un paio d’anni fa per un esordio di grande caratura, ma passato, sfortunatamente, quasi sotto silenzio. L’esatta equazione rumore=dolore subisce un colpo mortale grazie alla prestanza e alla sostanza del secondo atto, “Daughters”, scritto e suonato in formazione pressoché definitivamente allargata al sostegno attivo del (ma va?) sax di Kjetil Møster: quasi a rimarcare che la specificità di un trademark è tale per motivi seri, fondati e consequenziali. Detto, fatto: l’uragano è servito.

La potenza sprigionata dai sei pezzi del platter è, a tratti, ottundente. Non si tratta (più) di free form, ma è netta la sensazione che vi sia, da qualche parte, un grimaldello che scardini la logica della pura e semplice composizione. L’intelligenza strategica del gruppo, forniti i fattori (che, al di là di un relativo potenziamento, certo non cambiano), è quella di gestire al meglio le sfumature di grigio che l’indefinibile impasto strumentale erutta, nel suo progressivo sfaldarsi e ricomporsi. “Flashing Teeth Of Brass” è un mantice caricato ad orologeria, un condotto che inspira gravemente, danzando sulle punte di una balzana ritmica swing (tant’è che sono altri Daughters, oltre ai Refused, a venire in mente). È l’accumulo di energia statica che erompe nella prima parte della title track, un terremoto ruzzolante fra crampi grind, rumore bianco e schemi percussionistici composti: una coerente tela cubista su cui, senza preavviso, si accendono i riflettori del basso, feroce, marcescente, di Markus Hagen, a recuperare la mefistofelica cattiveria del post-core Amphetamine. Volta la carta, il gallo si sveglia: il gallo, per dovere di precisione, è l’ottone torturato, scorticato, trasfigurato di Møster, la dolorosissima voce lirica di una seconda parte quadrata e fisica sino alla parodia, un panzer industrial-kraut che fa terra bruciata attorno a sé.

Tale è la libertà creativa degli Staer, da permettersi di riutilizzare lo stampino di “Daughters I” per una “Future Fuck” che si lancia, dopo poco, in un abbacinante tunnel post metal, dove le chitarre brillano come se intessute di luce pura e il sax di Møster azzarda un paso doble bebop, schizzi di rosso sangue sul candore perturbato della sei corde (impossibile non richiamarsi alle avanguardie artistiche d’inizio ‘900, e d’altro canto aiuta il fatto che la copertina sia in realtà un dipinto di Urd Petersen). “One Million Love Units” è l’unione di una serie di atti infinitesimali perfettamente uguali a loro stessi e perpetuamente disintegrati, nella pantomima dissacrante di un pezzo hardcore e delle sue logiche di aggressione, pit stop e rilascio. Non stupisce nemmeno ritrovare, in “Neukölln”, zampilli noise a gittata continua, ma variamente interrotta e ripresa a piacimento: come se Pollock avesse avuto per le mani plettri, anziché barattoli di tinta, e sotto l’effetto della sua peggiore emicrania di sempre li avesse disposti in (dis)ordine.

Ripassate a breve: qualcosa di grosso sta nascendo in Norvegia.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.