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R Recensione

7/10

HIM

Ci sono musicisti che trascendono i limiti della categoria. Lo fanno in quanto musica essi stessi.  Non possono smettere di fluire in suono in maniera spontanea e, in casi rarissimi, regolare.

Doug Scharin appartiene a questa élite. Così “oltre” nel rapporto col suo strumento da potersi permettere di fare ciò che vuole, alla faccia dei generi, degli stili e, non meno importante, dei riscontri materiali, siano essi di critica o di mercato. E del resto, dopo aver eretto almeno un paio di colonne del rock tutto (Codeine, June of ’44) e dopo aver militato in una miriade di formazioni più o meno importanti nel panorama del post-rock/indie americano (Rex e Mice Parade, per dirne due) bisognerà, doverosamente, concedergli lo status “ad honorem” di eletto.

Gli HIM, in buona sostanza, sono Sharin. Il gruppo è in realtà una creatura multiforme, che si modifica secondo le esigenze specifiche del momento e del luogo e che, in questa forma plastica, ha attraversato gli anni (l’esordio, Egg, è del ’95), i luoghi e le culture. Si è passati così dalle ricognizioni dub intorno al post-rock iniziale, americano fino al midollo, alla svolta di Our Point Of Departure, diluizione di quelle stesse sonorità in  contenitori  zeppi di fusion e world music. Nel 2008 esce, solo in Giappone,  1110, album in cui il batterista si affianca al gruppo locale degli Ultra Living, oltre che alla solita schiera di comparse più o meno illustri.

Gli sarà piaciuto il Giappone, si sarà trovato bene con le persone, fatto sta che il nuovo album l’ha registrato a Tokio e, in buona parte, con lo stesso ottimo collettivo responsabile di 1110. Pubblicato nel 2009, esce adesso in Europa per l’etichetta Hip Hip Hip.

L’uscita di questo rende l’orientalizzazione di Scharin ancora più compiuta, esplicitata a partire dal titolo: un carattere giapponese che si pronuncia “hmmmm”. Per il significato, non saprei. Forse il nome del gruppo o, più improbabilmente, il verso d’apprezzamento che si potrebbe emettere durante l’ascolto. Perché sarà una scemata, ma l’immersione nell’atmosfera seducente di questo disco comporta quasi necessariamente l’emissione di un voluttuoso “hmmmm”.

Non che stravolga nulla, Scharin. Semplicemente si limita a fluire, ancora una volta, spontaneamente, senza sobbalzi, ma con la grande classe che lo contraddistingue.

Il groove di Creode, brano d’apertura, ha la duplice funzione di accogliere calorosamente l’ospite presentandogli al contempo gli elementi che lo intratterranno durante l’ascolto: forme (poli)ritmiche dalla perfezione meccanica, magnificamente rese attraverso l’eccelso (e non se ne poteva dubitare) lavoro di batteria e percussioni; un basso protagonista, nella sua piena e naturale funzione di “corpo”; chitarre lievi, che si librano bizzarre ma armoniose come api tra i fiori. Su tutto, voci in lingua preferibilmente originale (giapponese) che prendono le sembianze a volte di leggere melodie orientali (Creode), altre di innocenti filastrocche(la spensierata Abstract Ladder), altre ancora di mantra propiziatori o cori ultraterreni (la lunghissima Those Who Say, l’eterea  e quasi new age Clues To The Roots).

L’atmosfera è quella della vacanza, costantemente. Un clima di serena disposizione, che mescola Fela Kuti, Jaga Jazzist e salsa post-rock in un calderone dal sapore caraibico. Anche la pioggia che pare inumidire Hola è pacifica e benvoluta. Other Echoes, ninnananna giapponese per basso, effetti, voce e chitarra acustica, regala un momento di assenza ritmica, mentre Makossa For Masako è un lungo ed articolato discorso tra i Tortoise ed una congrega di percussionisti multietnici. L’unico impegno, comunque non obbligatorio, è rappresentato dalle geometrie spigolose di The Hidden Persuader, pezzo a incastri, tra un giro punk velocizzato, una batteria perfettamente sbagliata e un solo di chitarra distorta che incolla il tutto.

è un disco che scivola via in sottofondo, ma che, se gli si presta attenzione, si dimostra sempre all’altezza, pulito, elegante e fiero. Un po’ prolisso in alcuni momenti, un po’ fiacco in altri (i due pezzi conclusivi su tutto), certamente manierista in qualche misura, riesce comunque a nascondere i propri difetti dietro una presenza impeccabile. Quello che Doug Scharin fa, inseguendo  l’appagamento del sé senza cercare l’approvazione di nessuno, é semplicemente la traduzione in musica di sé stesso. Non si spiegherebbe altrimenti l’abisso che separa la stasi catatonica dei Codeine con il bicchiere mezzo pieno che abbiamo davanti oggi.

Fortunatamente  o no, i tumulti giovanili svaniscono con l’avanzare degli anni, lasciando una sorta di tranquillità consapevole che si è soliti definire “maturità”. Gli HIM sono maturi, e non hanno più bisogno di sorprendere, ma solo di godere con onore dello status raggiunto. In questo senso, è il disco che ci si poteva aspettare. Senz’altro è un atto d’amore verso la musica, il mondo e la vita, che parte (in tutti i sensi) dal Giappone, dalle sue sonorità, dalla sua gente. Shaolin Scharin, mi verrebbe ignobilmente da dire, se solo la Cina c’entrasse qualcosa.

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C Commenti

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bargeld alle 11:51 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

Il simbolo del titolo dovrebbe tradursi "io"! Bella recensione, Paolo!

paolo gazzola, autore, alle 13:07 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

Non so come tu abbia fatto, ma sei (al solito)preziosissimo! Avevo trovato cose del tipo: (&#21517 自我; 自尊心 , ma non mi era parso il caso di farlo presente nella recensione.

bargeld alle 13:19 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

Ah ah è proprio palese che sei un novellino del web! Un uomo d'altri tempi! Non conosco ovviamente il giapponese, ma esiste un servizio di Google che si chiama Translate che traduce alla bell'e meglio tutte le lingue della Terra!

paolo gazzola, autore, alle 14:01 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

Ah, ecco. Ho provato, e "maledetto" in giapponese si dice 最低の. "Sputtanatore" invece non me l'ha tradotto.

bargeld alle 15:43 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

Ahuahauahuah assolutamente più vivibile la tua condizione, credimi! Non adeguarti!

Genji alle 15:43 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

non vorrei fare il saccente di turno ma il simbolo del titolo non significa assolutamente "io" ma è una lettera di uno dei due sillabari esistenti in giappone, corrisponde all'italiano "n".

bargeld alle 15:45 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

Oh Genji allora ok, visto Paolo che i vecchi tempi dell'apprendimento faticoso sono sempre i migliori?

Perchè Google Translate traduca "io", dunque, resta un mistero...

TheManMachine alle 23:52 del 24 febbraio 2010 ha scritto:

Attenzione prego. Se mai un docente di lingua e letteratura giapponese fosse di passaggio su sdm, di grazia, ci illuminasse! Che cnbr vuol dire ん?? Aiutateci per favore che sennò noi qui stiamo male proprio, io per esempio non riuscirò a dormire stanotte... ) E comunque bella rece Paolo, complimenti!

Ivor the engine driver alle 10:44 del 25 febbraio 2010 ha scritto:

ha ragione il sessualmente ambiguo Genji (letterariamente parlando ovvio). E' la lettera N (o qualcosa di simile) dell'alfabeto fonetico Hiragana, nonchè unico esempio di suono non sillabico presente a sè in Giapponese, essendo altrimenti una sbrodolata di sillabe tipo ka ki ku ke ko, ta chi tsu te to, ma mi mu me mo, e via dicendo.

paolo gazzola, autore, alle 11:00 del 25 febbraio 2010 ha scritto:

Daniele, grazie per la riabilitazione ed il sostegno emotivo. Ragazzi, grazie per la sentita partecipazione al dibattito linguistico. Tutto ciò dimostra che SdM trascende i confini musicali per abbracciare la cultura tutta. Ma qualcuno, tanto per sapere, l'ha sentito 'sto disco? :_D

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 22:52 del 8 dicembre 2010 ha scritto:

Cosa ci fa questo disco così in basso?