HIM
ん
Ci sono musicisti che trascendono i limiti della categoria. Lo fanno in quanto musica essi stessi. Non possono smettere di fluire in suono in maniera spontanea e, in casi rarissimi, regolare.
Doug Scharin appartiene a questa élite. Così “oltre” nel rapporto col suo strumento da potersi permettere di fare ciò che vuole, alla faccia dei generi, degli stili e, non meno importante, dei riscontri materiali, siano essi di critica o di mercato. E del resto, dopo aver eretto almeno un paio di colonne del rock tutto (Codeine, June of ’44) e dopo aver militato in una miriade di formazioni più o meno importanti nel panorama del post-rock/indie americano (Rex e Mice Parade, per dirne due) bisognerà, doverosamente, concedergli lo status “ad honorem” di eletto.
Gli HIM, in buona sostanza, sono Sharin. Il gruppo è in realtà una creatura multiforme, che si modifica secondo le esigenze specifiche del momento e del luogo e che, in questa forma plastica, ha attraversato gli anni (l’esordio, Egg, è del ’95), i luoghi e le culture. Si è passati così dalle ricognizioni dub intorno al post-rock iniziale, americano fino al midollo, alla svolta di Our Point Of Departure, diluizione di quelle stesse sonorità in contenitori zeppi di fusion e world music. Nel 2008 esce, solo in Giappone, 1110, album in cui il batterista si affianca al gruppo locale degli Ultra Living, oltre che alla solita schiera di comparse più o meno illustri.
Gli sarà piaciuto il Giappone, si sarà trovato bene con le persone, fatto sta che il nuovo album l’ha registrato a Tokio e, in buona parte, con lo stesso ottimo collettivo responsabile di 1110. Pubblicato nel 2009, ん esce adesso in Europa per l’etichetta Hip Hip Hip.
L’uscita di questo ん rende l’orientalizzazione di Scharin ancora più compiuta, esplicitata a partire dal titolo: un carattere giapponese che si pronuncia “hmmmm”. Per il significato, non saprei. Forse il nome del gruppo o, più improbabilmente, il verso d’apprezzamento che si potrebbe emettere durante l’ascolto. Perché sarà una scemata, ma l’immersione nell’atmosfera seducente di questo disco comporta quasi necessariamente l’emissione di un voluttuoso “hmmmm”.
Non che stravolga nulla, Scharin. Semplicemente si limita a fluire, ancora una volta, spontaneamente, senza sobbalzi, ma con la grande classe che lo contraddistingue.
Il groove di Creode, brano d’apertura, ha la duplice funzione di accogliere calorosamente l’ospite presentandogli al contempo gli elementi che lo intratterranno durante l’ascolto: forme (poli)ritmiche dalla perfezione meccanica, magnificamente rese attraverso l’eccelso (e non se ne poteva dubitare) lavoro di batteria e percussioni; un basso protagonista, nella sua piena e naturale funzione di “corpo”; chitarre lievi, che si librano bizzarre ma armoniose come api tra i fiori. Su tutto, voci in lingua preferibilmente originale (giapponese) che prendono le sembianze a volte di leggere melodie orientali (Creode), altre di innocenti filastrocche(la spensierata Abstract Ladder), altre ancora di mantra propiziatori o cori ultraterreni (la lunghissima Those Who Say, l’eterea e quasi new age Clues To The Roots).
L’atmosfera è quella della vacanza, costantemente. Un clima di serena disposizione, che mescola Fela Kuti, Jaga Jazzist e salsa post-rock in un calderone dal sapore caraibico. Anche la pioggia che pare inumidire Hola è pacifica e benvoluta. Other Echoes, ninnananna giapponese per basso, effetti, voce e chitarra acustica, regala un momento di assenza ritmica, mentre Makossa For Masako è un lungo ed articolato discorso tra i Tortoise ed una congrega di percussionisti multietnici. L’unico impegno, comunque non obbligatorio, è rappresentato dalle geometrie spigolose di The Hidden Persuader, pezzo a incastri, tra un giro punk velocizzato, una batteria perfettamente sbagliata e un solo di chitarra distorta che incolla il tutto.
ん è un disco che scivola via in sottofondo, ma che, se gli si presta attenzione, si dimostra sempre all’altezza, pulito, elegante e fiero. Un po’ prolisso in alcuni momenti, un po’ fiacco in altri (i due pezzi conclusivi su tutto), certamente manierista in qualche misura, riesce comunque a nascondere i propri difetti dietro una presenza impeccabile. Quello che Doug Scharin fa, inseguendo l’appagamento del sé senza cercare l’approvazione di nessuno, é semplicemente la traduzione in musica di sé stesso. Non si spiegherebbe altrimenti l’abisso che separa la stasi catatonica dei Codeine con il bicchiere mezzo pieno che abbiamo davanti oggi.
Fortunatamente o no, i tumulti giovanili svaniscono con l’avanzare degli anni, lasciando una sorta di tranquillità consapevole che si è soliti definire “maturità”. Gli HIM sono maturi, e non hanno più bisogno di sorprendere, ma solo di godere con onore dello status raggiunto. In questo senso, ん è il disco che ci si poteva aspettare. Senz’altro è un atto d’amore verso la musica, il mondo e la vita, che parte (in tutti i sensi) dal Giappone, dalle sue sonorità, dalla sua gente. Shaolin Scharin, mi verrebbe ignobilmente da dire, se solo la Cina c’entrasse qualcosa.
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