Magnetic Fields
Realism
Si sorride oggi, a fronte dell’uscita del nono album in studio per i Magnetic Fields (il terzo di fila senza synths), al ricordo di quanti discorsi sono stati bellamente sprecati un paio di anni fa, quando sulla ribalta c’era Distortion, il precedente album della band.
Avete presente quando, ad un esame universitario, arriva puntuale la fatidica domanda? Quella che vi sprofonda nello sconforto colpevole e umiliante dell’ignoto più assoluto?
Solitamente il tutto si risolve in una gag più o meno riassumibile nel seguente scambio di idee: tu che dici "professore, questo argomento non era sul libro", e lui che, trattenendosi, risponde “infatti ne ho parlato a lezione”. Ecco. A lezione. Lui sogghigna, tu chini il capo, ti vergogni un po’, giri su te stesso e prendi la via della porta.
Così.
Oggi ho diligentemente comprato il nuovo Magnetic Fields.
In negozio lo pago, lo guardo, penso a Stephin Merritt che sogghigna, chino il capo, mi vergogno un po’, giro su me stesso e prendo la via della porta. E mi chiedo: ma si è divertito alle nostre spalle, come un sadico maestro, o semplicemente ne aveva parlato quando nessuno era a lezione?
Perché, se lo ha fatto, bisogna capire come mai, due anni fa, all’uscita di Distortion, eravamo tutti a parlare dell’ennesimo concept album dei Magnetic Fields, dedicato, per l’occasione, al tema della distorsione sonora. Si diceva di quanto chiaro e riverente fosse l’omaggio ai Jesus And Mary Chain. Di quanto rigorosa fosse l’applicazione della distorsione a tutti gli elementi sonori. Di come il risultato iper-distorto riuscisse comunque, con naturalezza, a rientrare nei territori del pop più accessibile tracciandone, allo stesso tempo, un ipotetico confine stilistico.
E di come invece, oggi, ci accorgiamo di aver elucubrato il tutto attraverso lo stesso filtro di distorsione, vogliamo parlare? Scoprire che il concept altro non é che il mezzo di espressione, che l’album di per sé costituisce solo la metà di un tutto, che la seconda metà si esprime attraverso un mezzo d’espressione che potrebbe parimenti essere scambiato per il concept, non vuol forse dire aver inteso le cose in maniera distorta?
Se non avete capito nulla, illuminanti saranno le parole di Merritt (sì, oggi parla, presumibilmente sogghignando) a proposito del rapporto fra i due lavori: “I thought of the two records as a pair, and I kind of wanted them to be called True and False. But I couldn’t decide which I wanted to be called True and which I wanted to be called False”.
Et voilà, molto semplice. Il concetto di dualità, l’uno che deriva dai due opposti, è il tema (unico) di entrambi gli album. Il dubbio su quale titolo assegnare ai due lavori pare legittimo, per il semplice fatto che i concetti di verità e falsità sono ugualmente presenti in entrambi i dischi, non soltanto nei testi delle canzoni, ma anche e soprattutto nella scelta estrema degli stili produttivi: come la distorsione avviluppava splendidamente il corpo classico, solidamente forgiato, del lessico tipico della band, il folk acustico di Realism ora lo (tra)veste nuovamente, donandogli nuova apparenza (falsità) ma garantendo l’immutabilità della sostanza (verità).
A Realism basta la copertina per esprimere il concetto in maniera incontestabile. Una copertina che è quella di Distortion. Anzi, è l’opposto. Dove là ti assaliva l’artificiosità orribile di un rosa shocking, qui ora ti accoglie un caldo color sabbia che ha il sapore delle origini, fra argilla, pergamena e canapa filata. L’artificio contrapposto alla natura.
Dove c’era un uomo, ora c’è una donna (i due sessi, le due polarità).
Dove il corpo era pieno, nero, ora è vuoto, trasparente, ridotto ad un contorno (materia e spirito?). Dov’era esibito il titolo “Distortion” ora si legge “Realism”, ed il cerchio si chiude. Il buio e la luce, il bene e il male, le due facce della luna. Insomma, per usare il perfetto simbolismo cinese, lo yin e lo yang che compongono il tutto, il tao, trasposti in musica secondo il verbo di Stephin Merritt.
Ovvia, dunque, la scelta della dimensione acustica, folk, per questo Realism. O meglio, dimensione formalmente folk. Perché non è che uno come Merritt si mette a fare canzoni chitarra e voce di punto in bianco (notoriamente non è in grado di sostenere il suono di un’acustica per più di tre minuti alla volta). Preferisce quindi ricercare una “varietà” del formato folk; qualcosa, come lui stesso ammette, di vicino ai lavori Judy Henske (il cui High Flying Bird fu uno dei primi dischi folk ad utilizzare una sessione ritmica) e Judy Collins (altro eclettico quanto fondamentale pilastro del folk americano dai ’60 in poi).
Realism è, infatti, pur sempre un album dei Magnetic Fields. Acustico stavolta, è vero, e privo di batteria, ma ad un’apparenza minimale corrisponde invece un’essenza assolutamente complessa. Basti prestare attenzione all’ennesima esibizione di strumenti di ogni tipo, ancora una volta prossima alla sfacciataggine: chitarra, banjo ed ukulele (un marchio di fabbrica di Merritt e soci), ma anche sitar e cuatro (una piccola chitarra sudamericana, suonata da John Woo); percussioni molto world music, che vanno dalle tabla indiane al cajon peruviano (percussioni dal timbro variabile) fino a fantomatiche e quantomeno curiose foglie d’albero, sono in mano a Claudia Gonson, orfana di batteria; aggiungete il violoncello del solito Sam Davol, il violino e i fiati (tuba e flicorno) delle due “novità” Ida Pearle e Johnny Blood, la fisarmonica e la voce del ritrovato scrittore/musicista Daniel Handler, il violino e la voce della vecchia conoscenza Shirley Simms ed avrete un’idea della quantità di suoni e relativi contrappunti che, magistralmente gestiti, danno vita a questa mezz’ora abbondante di musica.
Ne esce, e non poteva essere altrimenti, un caleidoscopio di brevi intuizioni squisitamente pop, leggere e profonde allo stesso tempo, in difficile equilibrio fra la forza dei sentimenti ed il piacere piccante dell’ironia. Prende vita la (solita) rappresentazione di una (in)sincerità pura che per i Magnetic Fields non esiste.
Gli elementi sonori sono dosati con la sapienza e la perizia che appartengono naturalmente al gruppo: si va dalle orchestrazioni piuttosto articolate delle “classiche” You Must Be Out Of Your Mind (morbidissima la stratificazione delle voci), Seduced And Abandoned (spicca l’apparizione del famoso quanto inutilizzato “bastone della pioggia”) e Dada Polka (unico, divertente, episodio con percussioni in primo piano e dissonanze sommerse), all’essenzialità della ninna nanna pianistica Interlude o alla profondità sonica di I Don’t Know What To Say. Spicca per diversità, e non per altro purtroppo, la frizzante We Are Having A Hootenanny, brano chitarristico di chiara ispirazione country/folk.
Va detto che la dovizia di strumenti, insieme con la consueta, maniacale attenzione per l’arrangiamento e la registrazione, sprofonda letteralmente la batteria nell’oblio del dispensabile. Non c’è un momento in tutto il lavoro in cui se ne senta la mancanza. Anzi, l’impressione è quella opposta, ovvero di uno strumento fantasma, inudibile ed incorporeo, ma in qualche modo fisicamente presente. In episodi quali The Dolls’ Tea Party o Painted Flower la sezione ritmica e quella armonica coincidono, prendendo la forma di un gocciolamento percussivo e tonale allo stesso tempo. Note vibranti raccolte da sporadici e profondi abbracci di tuba e violoncello e colorate da fugaci incursioni chitarristiche.
Del come dimostrare l’inutilità di uno strumento chiave eliminandolo senza che si noti: certe cose riescono ai Magnetic Fields, e a pochi altri.
Non mancano (non mancano mai) le perle autentiche, tutte poste, a parere di chi scrive, nella seconda metà dell’album. Dopo la lenta, bassissima Walk a Lonely Road è un alternarsi di gioie: lo splendore romantico e malinconico di Always Already Gone, racchiuso nella sua stupenda melodia, poggia su di un oscuro tappeto d’archi e chitarre; Better Things riesce, con un’evoluzione fenomenale, a far dimenticare un inizio invece un po’ meno convincente; la chiusura per piano, archi e chitarra di From A Sinking Boat è l’apice di tutto il lavoro. Struggente e perfetta, rende giustizia più di ogni altro brano all’effettiva ricerca di una sorta di eco costante (elemento, questo, in grado di dare ulteriore e peculiare qualità al suono e soprattutto alle voci), ravvisabile comunque in tutti gli episodi del lavoro. Perché ai Magnetic Fields non basta comporre ed arrangiare alla perfezione. Se la registrazione non è in sé un processo unico e dedicato non sono contenti. Così era stato anche per Distortion, registrato in ambienti aperti o riflettenti (quali trombe delle scale, grandi sale o semplicemente bagni piastrellati) alla ricerca della giusta vibrazione da catturare e fissare sul nastro per sempre.
Realism è l’ennesimo album impeccabile di una band che difficilmente riuscirà mai a deludere. Musicalmente perfetto, presenta tutti i (molti) pregi e i (pochi) difetti del gruppo che lo ha creato. Dei pregi abbiamo detto. I difetti sono ravvisabili nell’ormai statica scrittura, uguale a se stessa da più di una decade (e quindi fisiologicamente claudicante, almeno in qualche episodio), che non pare in grado di rinnovarsi nella misura in cui lo fa l’elemento suono, ed in una ispirazione che, se da una parte ha caratterizzato intellettualmente e filosoficamente l’opera di Merritt fin dall’inizio, manca comunque di quell’elemento spontaneo, sanguigno, imperfetto che a volte è indispensabile per penetrare i cuori nelle più recondite, intime profondità.
Mi restano un paio di dubbi a proposito dei Magnetic Fields: in primo luogo mi chiedo se un giorno ascolteremo un disco realmente diverso dal precedente. Se non ci siamo riusciti stavolta, avendo fra le mani due concetti opposti, credo non ci sia più speranza. Cambieranno i suoni, ma li riconosceremo sempre a un secondo dal via. E va bene, non è necessariamente un male.
In secondo luogo mi chiedo se I, album precedente a Distortion, spesso criticato per la debolezza del concept di fondo (la lettera “i” come inizio di ogni titolo), non nasconda in realtà qualcosa d’altro, qualcosa di non compreso, ma qualcosa che Merritt possa un giorno sbattermi in faccia, sogghignando, per farmi vergognare.
Sito: www.houseoftomorrow.com
MySpace: http://www.myspace.com/themagneticfields
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