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R Recensione

6/10

The Deer Tracks

Aurora

L’inverno, e il nord. Una dimensione naturale, atavicamente radicata in ognuno di noi, che coinvolge e rapisce tutti, anche chi nel nord, quello vero, non ci ha mai messo piede. Può essere così che gruppi come Sigur Rós e Múm hanno conquistato il mondo. Offrendo la traduzione in musica di un sapere/sentire comune che però, per ragioni meramente geografiche, per noi “temperati” non era possibile focalizzare. Conosciamo la quiete, rilassante ed accogliente, di un posto caldo dove rifugiarci, ma forse non l’introspezione cui un desolante splendore inevitabilmente conduce. La natura è così dominante, lassù, da assurgere al ruolo di ispirazione primaria. E la lode dei suoi figli ad essa porta in sé una reverenziale gratitudine tanto per la bellezza e l’armonia, quanto per il rigore ed il fascino mistico delle sue leggi.

Il duo The Deer Tracks (David Lehnberg, Elin Lindfors,rispettivamente già con Leiah e Ariel Kill Him & Twiggy Frostbite) viene da Gävle, Svezia. E si inserisce perfettamente nel discorso, proponendo una musica che, prima di tutto, è fortemente evocativa dei luoghi geografici dai quali origina. Una musica pacifica, delicata e sognante, continuamente in bilico sull’orlo della propria fragilità. Una musica che deve molto all’opera di altri grandi gruppi nordici quali soprattutto i Múm, ma che vede riferimenti tutt’altro che trascurabili anche nell’elettronica soave di matrice Morr Music, nel trip hop lisergico degli anni novanta, nel dream-pop più etereo, nello shoegaze da classifica e nel micro-genere della toytronica. Aurora, album d’esordio per i due ragazzi, si fa portatore deciso e coerente di questa particolare estetica meticcia.

Il disco si articola su nove brani che sostanzialmente sono nove declinazioni di un unico, preciso, linguaggio, definito da pulsazioni ritmiche elettroniche, rade e pur complicate da una decisa predilezione per la sincope, e dall’utilizzo misuratissimo di una strumentazione decisamente ampia (oltre alla chitarra elettrica troviamo melodica, tromba, clarinetto, tastiere, synth, l’ormai immancabile glockenspiel e una serie di misteriosi strumenti percussivi, definiti da Lehnberg stesso “junk toys”). Le canzoni trovano la loro naturale dimensione in minutaggi piuttosto elevati -praticamente sempre intorno ai cinque minuti, con punte di oltre sette - ed in atmosfere costantemente ribadite, screziate in un paio di occasioni da misurati crescendo ed esplosioni ad effetto (l’iniziale Yes This Is My Broken Shield, uno degli episodi migliori, seppur un po’ scontato nella sua struttura, e I Bite Your Tongue, all’opposto, uno dei peggiori, specchio impietoso dei limiti del gruppo).

La reiterazione di elementi e risultati è il primo problema con il quale fare i conti. Causa l’eccessiva uniformità degli arrangiamenti, quasi sempre privi di una caratterizzazione forte nel tessuto del disco, servono diversi ascolti per arrivare a poter riconoscere i brani attraverso la sola componente strumentale. Uno stile tanto definito quanto, per certi versi, freddo ed asettico, che proprio nel suo carattere cristallino trova, paradossalmente, la ragione di una certa spiacevole inafferrabilità. Le voci, prestate da entrambi i componenti e spesso sovrapposte (dominante, in ogni caso, quella della Lindfors), sono eteree e spettrali, pervase da un lirismo sussurrato, trattenuto, che si sposa perfettamente con le atmosfere sonore del lavoro. Tratteggiano melodie semplici, diluite nel tempo e forgiate nel linguaggio più smaccatamente easy-listening che si possa immaginare. Senza voler dare a ciò una connotazione necessariamente negativa (la qualità di scrittura è comunque generalmente discreta), non si può non rilevare la pochezza melodica di brani quali Before The Storm o World Of Abel, piuttosto che della già citata I Bite Your Tongue. Per contro, la formula funziona a meraviglia in brani quali Christmas Fire (il cui ritornello è una delle cose migliori del disco), Slow Collision (figlia anche di molti ascolti “canadesi”) e parzialmente nella portisheadiana 127 Sex Fyra.

Aurora è un album difficilmente valutabile. Se non gli si può negare una personalità forte ed il grande pregio di saper produrre un’atmosfera piacevolissima nell’ambiente in cui si diffonde, si può altresì imputargli il limite di non saper sempre reggere ad un ascolto attento ed esigente. Il distillato di delicata elettronica che concorre a creare i tappeti sonori non lascia dubbi circa un’attenzione certosina al dettaglio, evidente sia nella scelta dei suoni che negli accostamenti reciproci degli stessi. Semplicemente, causa quel carattere vago di cui si è parlato, il valore dell’insieme non riesce a mantenere lo stesso livello di eccezionalità. Rimane un disco comunque complessivamente piacevole, sicuramente in grado di alimentare aspettative di una certa importanza intorno a questa giovane band.  

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