R Recensione

8/10

Rokia Traoré

Tchamantche

L’Africa è un paese lontano. Non è una comune constatazione geografica. C’è qualcosa di più. L’Africa è lontana dalle nostre riflessioni, dalla nostra testa e dai nostri progetti. Nelle carte nautiche dell’antica Roma l’Africa era un grosso triangolo colorato con una sola indicazione scritta al centro “Hic sunt leones”. Ovvero: tenetevi alla larga, qui ci sono i leoni. Un po’ di quella paura non è mai stata sconfitta. L’Africa è, per molti, un grosso paese di gente che vive in baracche e aspetta di morire di fame.

Invece l’Africa è anche un mondo che vive, lotta, spera e sogna. E canta. Prendete la Repubblica del Mali, ad esempio: avevamo appena fatto in tempo a scoprire il compianto Ali Farka Tourè e ad innamorarci del tuareg-rock dei Tinariwen, che ci ritroviamo tra le mani questo “Tchamantche”, quarto album di Rokia Traoré, artista trentaquattrenne attiva dal 1992 come membro del gruppo rap Let’s flight (il nome giusto per non smettere di sognare …) e come solista dal 1997.

La forza della musica di Rokia Traoré risiede tutta nel contrasto tra la sua volontà creativa dal respiro internazionale e il profondo rispetto della tradizione musicale del suo popolo. Due elementi che trovano nelle nove tracce di quest’opera un perfetto “Tchamantche” (“equilibrio”).

La maggior parte dei brani sono cantati in bambara (o bamana), la lingua tradizionale del Mali, e sorrette dal suono del ‘ngoni, un liuto a quattro corde suonato qui da Mamah Diabate e già reso noto da grandi artisti come Baba Sissoko. A questo aggiungete percussioni, batteria, basso, chitarra e quella voce. La voce di Rokia è l’emblema della sua consapevolezza artistica, la stessa consapevolezza che le consente di tenersi alla larga dagli stilemi della world-music come dagli artificiosi “africanismi” da tappezzeria di produzione europea.

 “Koronoko” e “Yorodjan” sono episodi nei quali la voce nuda di Rokia accompagna il vero protagonista della scena, il ritmo. Le reiterazioni circolari di bassi dub, percussioni, ‘ngoni e chitarra (suonata dalla stessa Traorè) creano vere e proprie “bambara-rock-songs”, nelle quali i ritmi frammentati e tribali cedono spesso il posto a quadrate cadenze in quattro. La voce di Rokia racconta la storia del suo popolo sotto forma di morbide ballate acustiche (“Kolokani”) o di scarne strutture percussive (“A o uni sou”), ma non pensiate che questa esile donna sia solo capace di carezze e danze tribali: sentitela ruggire tra i ritmi sincopati e i cori solari di “Tounka”, oppure sussurrare nell’implosione acustica di “Dianfa”.

Dunia” è un vortice che cresce lento e inesorabile, dove ritmi sabbiosi e indolenti si uniscono a tensioni post-rock e a chitarre che ricordano quelle presenti nel recente capolavoro di Iron & Wine. Non si pensi, però, che Rokia Traorè prenda in prestito suoni europei o americani per le sue “African-songs”. Si tratta dell’esatto contrario. Gli ospiti siamo noi. Come nella dolcezza desertica di “Kounandi”, esempio di roots-folk con tanto di arpa (suonata da Christophe Mink) o nel ritmo quasi dancehall di “Aimer”, cantata in francese ma guidata dal suono del ‘ngoni.

Da qualche anno si parla dell’ “africanizzazione” del rock come della vera novità in ambito musicale. Si pensi a band come Yeasayer, Mahjongg, Vampire Weekend o Extra Golden (ma anche alle novità apportate recentemente da alcuni artisti storici come il già citato Iron & Wine), oppure al ritorno di certo afro-beat figlio di Fela Kuti (Antibalas Afrobeat Orchestra, Bonobo, The Budos Band). Rokia Traorè, africana cittadina del mondo, si spinge oltre, proponendo l’”occidentalizzazione” del suono africano.

E soprattutto ci insegna una cosa che avremmo dovuto imparare secoli fa. Non è necessario andare a prendere pezzi d’Africa, basta aprire le braccia e socchiudere gli occhi: il vento sabbioso e artisti come Rokia Traorè portano l’odore dell’Africa ovunque.

V Voti

Voto degli utenti: 7,1/10 in media su 5 voti.
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merman 6/10
REBBY 6/10
cielo 9/10

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