R Recensione

7/10

Paolo Saporiti

Just Let it Happen

Nella scena cantautoriale italiana l’underground ha visto ormai affermarsi artisti di peso come Paolo Benvegnù e Cesare Basile mentre altri (Luci della Centrale Elettrica il caso più eclatante) si affacciano neanche troppo timidamente all’orizzonte. Sono tanti comunque gli artisti che restano sommersi e molto spesso non se ne comprende appieno le ragioni. Paolo Saporiti è uno di questi: il suo è un songwriting limpido, asciutto e pulito. E soprattutto di gran classe. Just let it happen è il suo secondo lavoro dopo The Restless Fall con cui esordì nel 2006.

Come allora Saporiti imbraccia la chitarra, stampa nel cuore pochi semplici arpeggi e canta con grande sincerità e raffinatezza. Si fa accompagnare principalmente dalla violoncellista Francesca Ruffilli e dal poliedrico Xabier Irondo, mentre meno appariscenti (ma non certo meno competenti) sono gli interventi di Christian Alati (chitarra e produzione) e Lucio Sagone (percussioni).

Le canzoni sono poche, sette, ma tutte di grande impatto. A partire dalla grande potenza espressiva di Mountains of broken guns & dream fino al folk autunnale appena spruzzato da un tenue violoncello in All, fall down. La Ruffilli si mette ampiamente in luce anche in Just let it happen con la sua grazia giuliva, mentre Irondo fa sentire i suoi effetti noises nella sobbalzante e misteriosa Like a dog.

Ma è soprattutto a Saporiti che bisogna dare atto di aver costruito una prova convincente in grado di non sfigurare con i grandi maestri del genere. Merito del cantato in inglese certo, ma anche e soprattutto di liriche e arrangiamenti sempre all’altezza della situazione. Così si pone il bozzetto folk classico At your feet, per cui occorre scomodare nomi più o meno ingombranti come Nick Drake, José Gonzales e Damien Rice. Così si pone anche 100.000 lies, altra graziosa melodia su cui Saporiti si traveste da Connor Oberst mentre Irondo smorza la forte intensità spargendo effetti sonori gocciolanti e rinfrescanti. E così fino alla finale The last man on heart, che ricorda terribilmente il canto del cigno straziante di Thom Yorke emesso in Videotape a chiusura dell’album In rainbows.

Se i pregi dell’opera sono quelli già stati abbondantemente elencati i difetti sono per certi versi i soliti quando si parla di italiani: ampia se non totale derivatività e probabile eccessiva esterofilia (lo stesso Saporiti ha dichiarato di non conoscere pressochè nulla della scena italiana). La lunghezza limitata del disco inoltre è un altro fattore di debolezza che porta a vedere l’opera più come a un ep ben elaborato che come un lp smerciabile. Sono comunque difetti su cui si può passare sopra.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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REBBY 6/10

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