Jens Lekman
When I Said I Wanted To Be Your Dog
Hai preso il tram numero 7 per il Paradiso?
Anzi no, lasciamo tutto in lingua originale, che la rima fa più cool: Did you take/ Tram # 7 to Heaven?.
Che tu labbia fatto o no, importa poco: questa frase, nella sua surreale sensucht, è IL disco di Jens Lekman; anzi, forse è Jens Lekman stesso, fuso in una vasca e trasformato in un semplice verso per tutti noi.
Avviso ai naviganti: il disco in questione, When i said i wanted to be your dog, è decisamente sconsigliato a chi nella musica cerca la novità elettrizzante, a chi detesta il profumo un po stantio di tutto ciò che è già sentito.
Perché qui il passato corre felice lungo i solchi, tanto che le nobili radici sono tutte in mostra (i nomi si sprecano: I Campi Magnetici, Morrissey, Jarvis Cocker, io vedo pure qualche ammiccamento al Walker della prima ora, e chi più ne ha più ne metta). Ma, sopra ogni altra cosa, questo album non è pane per i denti di chi detesta la melensaggine, il sentimentalismo più sfacciato. Perché Jens vive di questo. Parla di cuori infranti, incontri nella notte, solitudini inconsolabili, timidezza, amore platonico, ricordi struggenti, matrimonio, e di tutta 'sta roba (per qualcuno, ne sono certo, robaccia).
Lo fa però con una grandeur sconosciuta alla concorrenza: la sua forza, ciò che lo colloca a mio avviso due spanne sopra tutti i coetanei, risiede - oltre che in un talento melodico sopraffino e ambivalente - nella sua assoluta genuinità (oltre che nella varietà dello stile, molto più articolato e ricco di quanto si potrebbe credere).
Ecco, già vi vedo storcere il naso: ancora questi concetti antiquati (la storia della musica vera) o, forse, paradossalmente falsi.
Eppure, io credo che Jens sia realmente come traspare in questo disco (così come nei successivi, quando racconta di ricordare ogni bacio), che la sua timidezza e il suo romanticismo siano reali, talmente sfacciati da risultare stupefacenti, quasi si potesse toccarli con mano. E credo anche che il suo segreto stia anche (se non soprattutto) qui.
Jens assomiglia a un ragazzo ottocentesco del tutto fuori contesto e fuori moda, magari anche un po irritante nella sua perfezione, capace però di scrivere pezzi eccellenti per cui gli perdoni tendenzialmente tutto. Jens non è un dandy altezzoso e frullatutto (Patrick Wolf? Così, per restare alla sua-mia generazione) né un genio visionario (Four Tet?), è solo un giovane cuore infranto, nascosto sotto quintali di zucchero, che parla di timidezza, nostalgia e di tutto larcinoto corredo: indi, prendere o lasciare. O si ama questo mondo, o si ama questo modo di vivere la musica, oppure è decisamente consigliabile risparmiarsi fatica e noia.
Il ragazzotto svedese (non ha ancora 23 anni, quando incide il lavoro in questione; ma alcuni pezzi risalgono al 2000) ama pescare nel passato, seppur sempre con un tocco personale a suo modo colto. I suoi modi sono pacati e austeri, molto scandinavi e lontani dalle classifiche e da tutto lo stardom: Jens è il ragazzo timido e riservato della porta accanto, e non fa nulla per nasconderlo; anzi, lo esibisce come fosse la sua forza.
Tram # 7 to Heaven è una canonica ballata molto folkeggiante e densa, che si inventa rime e giochi di parole freschi e speranzosi come laria mattutina di una Goteborg primaverile:
Tram number one is full of fun/ Tram number two is couchie coo/ Tram number three is misery/ Tram number four knocks at your door/ Tram number five I'm still alive/ Tram number six I think I'm fixed/ Tram number seven Tram number seven to heaven.
La forza di tutte le canzoni sta nelle intuizioni melodiche, brillanti come non si sentivano da tempo in un contesto ultra-inflazionato, che sembra però aver dimenticato il ruolo chiave di una scrittura ricca e imprevedibile: Happy Birthday, Dear Friend Lisa trasuda miele e zucchero da ogni poro, tanto che fra i suoi squarci agrodolci e i fiati sgargianti pare di scorgere uno Stephin Merritt che sorride compiaciuto, attraverso la pioggia.
If You Ever Need a Stranger (To Sing at Your Wedding) è una insostenibile, sdolcinata e meravigliosa professione di fede (You think its funny/ My obsession with the Holy Matrimony), che sa pure inventare fraseggi melodici che avvicinano il concetto di perfezione.
Maple Leaves adocchia e campiona il Glen Campbell enfatico di By the Time I get to Phoenix, ed è un crescendo orchestrale molto classico ma senza sbavature. Il testo apre orizzonti che velano di oscurità i bagliori della musica: "And when she talked about the fall/ I thought she talked about the season/ I never understood at all". Forse Jens si riferisce alla caduta verso l'inferno (depressione?), e un brivido di terrore corre lungo la schiena.
Il momento clou arriva con The Cold swedish winter, perché qui veramente si getta la maschera, e Lekman è talmente sdolcinato che farebbe impallidire le versioni peggiori (o migliori, a seconda di chi ascolta) di Merritt o Morrissey: ma la canzone tocca e graffia nel profondo, fra le breve intro della chitarra e lelegante controcanto del ritornello. Il testo è Lekmanismo allo stato puro: "She Said: "Shh Please be quite/ I Know you don't want me/ But please deny it/ Cause the cold swedish winter is right outside/ And I just want somebody to hold me throughtthe night".
Stesso discorso per la title-track, altra zuccherosa ballata da cameretta immersa nella solitudine di un paesaggio invernale, altra celebrazione dellamore impossibile: non che sia una novità, ma lo stile di Lekman è così diretto, limpido e ricercato che evita accuratamente clichè e noia. Si limita a regalare canzoni senza tempo.
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