Elton John
Tumbleweed Connection
C’è stato un tempo in cui Elton John era giovanissimo, capelluto, timido e riservato, ingenuamente innamorato del sogno americano tanto da dedicare ad esso quest’opera piena di chitarre acustiche e di riferimenti storico culturali, con tanto di saloon in copertina e lui vestito casual (!) ed appoggiato alla parete d’ingresso. La sua immagine presto imbolsitasi, la sua eccentricità controproducente, la sua annacquata prolificità ne hanno compromesso l’appeal presso gli appassionati di musica, ciò non toglie che Elton rimanga uno dei più grandi canzonieri d’ogni tempo, con all’attivo almeno una quindicina di melodie epocali.
In questo disco, il terzo della sua carriera che lo vede ancor ventitreenne, niente fa una piega: songwriting superlativo e vario, voce stentorea e salda, pianismo brillante e compatto, bellissimi testi del socio Bernie Taupin, competenti arrangiamenti orchestrali dell’altro collaboratore Paul Buckmaster: Soprattutto, una vena pop ancora tenuta al minimo, non per altro a suo tempo l’album ebbe un successo solo discreto.
Anche perché manca l’hit single, la canzone epocale, quella che si è ad esempio rivelata nel tempo la “Your Song” del disco precedente. Meglio così, “Tumbleweed Connection” è un disco di Elton John farcito di belle canzoni, nessuna famosisssima, da cui perciò ciascuno può serenamente estrarre la sua preferita. Io non ci riesco stabilmente, a volte propendo per quella “Love Song” cantata insieme all’autrice, la sua corista Leslie Duncan: una situazione inaudita in cui Elton canta solamente, non componendo e non suonando neanche una nota di pianoforte. Sopra il mirabile arpeggio di acustica di Leslie le due voci si armonizzano su di una melodia folk struggente e indimenticabile, un gioiellino lontanissimo dagli standard per cui Elton è universalmente noto, un episodio da fare invidia ai migliori Simon & Garfunkel.
Ma che dire della corposa “Burn Down The Mission”, abbondante eppur perfetta composizione con momenti lirici ed altri trascinanti, con un pianismo che ha fatto scuola, dinamicissima e appagante nei suoi pieni orchestrali alternati con il gioco del pianoforte solista. In questo duello al vertice vi è poi anche “Amoreena”, buffo titolo per una ballata mirabile che procede singhiozzante nelle strofe per poi librarsi in un refrain gustoso e forte.
Molti propendono invece per il quasi pop di “Where To Now St.Peter?”, dotata di uno sviluppo melodico fantastico e di presa immediata, adornata dalla particolare efficacia negli interventi del suo chitarrista del tempo, Caleb Quaye, un mulatto con uno stile personale e creativo, specie col pedale wah wah (Caleb quasi subito lascerà la musica per seguire la sua vocazione spirituale e diventare pastore protestante...).
Non mi ha invece mai del tutto convinto la “Country Comfort” spesso segnalata come vertice di questo lavoro, un episodio con un atteggiamento americaneggiante un poco di maniera. Mi ha invece sempre convinto l’ennesima perla intimista e melodica che sta in posizione n° 5, “My Father’s Gun”: fa parte della serie di canzoni introspettive e malinconiche (attenzione: senza l’antipatico e piagnone manierismo eltoniano degli anni novanta!) di cui quest’opera è piuttosto cosparsa, essendo della stessa risma anche le ottime “Come Down In Time” (che suggestiva voce!) e “Taking All Soldiers” (che melodia!).
C’è stato un tempo in cui i dischi di Elton John contenevano quasi tutte canzoni di livello. La proverbiale prolificità dell’artista non si riverberava sulla media qualitativa dei suoi album e “Tumbleweed Connection” sta lì a dimostrarlo, contenendo almeno sette brani bellissimi.. Ben presto non è stato più così e fra i suoi molti lavori, dalla seconda parte degli anni settanta in poi, bisogna andare con il lanternino a cercare la perla in mezzo a tanta inutilità. Se si “mette su” questo disco e si rimuovono i cattivi pensieri che suscita l’immagine bolsa e antipatica, adornata da finti capelli ed altre improbabili mise, del cantante compositore e pianista in questione, il piacere è assicurato.
Tweet