The Tallest Man On Earth
There's no leaving now
Ci avevano avvertiti da tempo, no?
Come di cosa?
Del fatto che una folta schiera di musicisti avrebbe imbracciato una chitarra acustica, shakerato per bene tutta la frenesia e tutta la potenza grezza della gioventù (nel frattempo trasfigurata in una sorta di luogo perduto e paradisiaco, in un monolite da venerare in ginocchia), immagazzinato un bel po' di interrogativi e di cultura trasversale nella propria capoccia e poi riscritto la storia alla poesia, qualunque cosa si intenda per poesia.
Ecco così che nascono i cantautori.
Razza strana, quella dei poeti contemporanei, razza che fa strage di mode e di cambiamenti radicali, lente che rifrange le inquietudini e le tossine dell'anima così come della Storia, spalla forte e saggia cui appoggiare la testa nei momenti più cupi.
I cantautori erano necessari come una scossa elettrica negli anni '60, e - anche se non attraversano una fase propriamente brillante - sono quantomai pertinenti e salutari anche oggi. Perché calzano come nessun altro lo zeitgeist del nostro tempo (qualunque sia il nostro tempo), perché ne catturano smarrimento e desolazione così come le pulsioni vitali.
Perché, per qualche oscura ragione, country e folk hanno conservato una purezza originaria che li ha preservati dalla fagocitazione da parte del circuito mediatico e mainstream, destino che pare invece ineludibile per ogni novità partorita dal'universo anticonformista.
E' strano e spaventoso riscoprire attimi irripetibili e pulsazioni del cuore in un testo altrui, e forse è proprio per questo che i poeti - come diceva uno di loro - ci fanno paura: il fatto è che aprono sempre la loro finestra, anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata.
Forza, allora, affacciamoci mentre gli occhi si illuminano, perché le terre che scolorano nelle nevi eterne del nord ci hanno consegnato fra le mani uno dei poeti del nostro presente, uno dei più grandi.
Potevamo anche intuirlo: uno che si sceglie uno pseudonimo come L'Uomo Più Alto Della Terra deve possedere un ego enorme, un ego che tende ad assorbire sensazioni come una spugna gigante, per ricavarne bagliori di stupore puro (del resto, ce l'ha già dimostrato ampiamente con le precedenti pubblicazioni).
Il segreto di una canzone è nella testa dell'autore: è difficile cogliere la grandezza di pezzi come "1904" o "To Just Grow Away" standosene seduti accanto al leggio per decifrare il pentagramma. Non se ne ricava granchè. I poeti raramente sperimentano armonie fluttuanti o intrecci vorticosi di accordi: il segreto della loro grandezza (quando la grandezza c'è e si può toccarla con mano, sia ben chiaro) è nella poesia, e non parlo solo o tanto dei testi (che pure sono un elemento coessenziale, un tassello imprescindibile del puzzle), ma del misterioso alone che circonda il matrimonio fra parole e musica, dell'ingrediente segreto che insaporisce una semplice sequenza di accordi o un banale inciso melodico, del numero magico che rimane appannaggio dei cervelli più intraprendenti e talentuosi.
Quei cervelli che ti penetrano l'anima come gli occhi di una ragazza innamorata, quei talenti naturali che possiedono una marcia in più e sanno sprigionare (sfruttando pochi elementi) canzoni strabilianti.
Una chitarra acustica, dicevo; e magari un pianoforte, note sparse di flauto ed una voce nasale già da tempo accostata a quella del padrino (sì, Bob Dylan: argomento già sviscerato che quindi ho deciso di aggirare), testi forti, personalità da vendere e la luce della melodia più calda e elegante.
Questo è "There's no leaving now": un barlume di speranza e di vigore pulsante che lancia un sasso pesante nello stagno un po' rinsecchito e paludoso della musica d'autore, un piccolo miracolo che ossigena un universo in piena crisi d'identità scegliendo strade rigorose e (per quanto certo non sperimentali) oggi poco battute.
"1904" è il pezzo dell'anno, perché il suo testo ti cattura come le creazioni migliori di un Young intriso di surrealismo, e la melodia incastra frammenti di cuore in un contesto dominato dall'intelligenza lirica, partorendo una combinazione immortale.
Il vento che spinge "Revelation Blues" o la title-track non è meno sinuoso e frizzante. Kristian è fra gli autori che hanno conservato una forma di rispetto sacro per l'ascoltatore e non concede spazio a riempitivi. Corre, arrangia, si diverte a vivisezionare un passaggio melodico fantastico, decolla e medita: sempre ad occhi sbarrati, sempre sorretto dall'ispirazione più intrasigente.
E' difficile tradurre in parole le sue canzoni: ogni tentativo di descrizione puntuale mi sembra avventato. Credo perciò sia molto meglio limitarsi a caldeggiarne l'ascolto, perché le sensazioni e le immagini che evoca sono fortemente personali.
Del resto, parliamo di uno dei poeti: ce ne sono sempre di meno, conserviamoli come fossero diamanti.
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