Earth
Full Upon Her Burning Lips
Quella metà delluniverso rock che rifiuta lattribuzione di qualsivoglia talento artistico a Dylan Carlson e se lè legata al dito per la vecchia storia della cessione del famigerato fucile a Cobain non deve essersi certo strappata i capelli una volta venuta a sapere dellurgente ricovero cui il mastermind degli Earth è stato costretto lanno scorso, a Berlino, nel pieno del tour promozionale per laffascinante uscita solista Conquistador: una brutta infezione interna, ennesimo regalo di un fegato devastato da anni di abusi e di vita ai limiti, che ha costretto Carlson alla cancellazione delle rimanenti date europee. Lallarme, che per un attimo come già con Mike Scheidt degli YOB nel 2016 aveva fatto temere il peggio, è poi fortunatamente rientrato. Date le tempistiche è piuttosto improbabile che sia andata così, ma rimane comunque suggestivo pensare ad un legame tra la scrittura del disco degli Earth più minimale di sempre e la degenza forzata del bandleader su un letto dospedale: senza margine di manovra, inchiodati con le spalle al muro, costretti ad inventarsi (dal nulla, col nulla) una via di fuga.
Nei fatti, dopo che il buon Primitive And Deadly (2014) aveva fatto lasciato intendere una sostanziosa svolta nel suono Earth, verso unespansione e una sua massimalizzazione in massicce volute goth-blues, la struttura di Full Upon Her Burning Lips sembra tradire ogni minima aspettativa pregressa. Lineup asciugata a due soli elementi (come sempre inconfondibile il respiro metronomico di Adrienne Davies), registrazione in presa diretta con un parco di sovraincisioni limitatissimo (Carlson si occupa anche delle linee di basso), sessantatré minuti complessivi: se un indizio è un indizio e due una coincidenza, tre possono già essere sufficienti per una prova. Giusto il tempo di iniettare elettricità nellamplificatore e la prova arriva: i catatonici arpeggi a sbuffo di Daturas Crimson Veils (12:15) legano alla più classica delle pentatoniche i destini di lande corrose dal calore, inabitabili inferni che i raggi solari trasformano in allucinazioni geoculturali. Passare lamericana attraverso un prisma, sezionarne un colore alla volta, cristallizzarlo infine in un tempo immoto, fuori dal tempo stesso: non certo una novità nel modus operandi degli Earth, che in Full Upon Her Burning Lips raggiunge tuttavia rinnovate vette di assoluta ciclicità, come osservando il mondo da uno zootropio che ruota continuamente su sé stesso (She Rides An Air Of Malevolence).
La bellezza contemplativa delle autogeneranti trame di chitarra di Carlson non passa mai di moda, specialmente quando creano lo spazio per quello che sembra labbacinante ritornello canicolare di un drone-doom westernato in slow motion (Cats On The Briar), strozzano nelle aporie le tensioni irrisolte di una ghigliottina cripto-stoner metal (The Colour Of Poison sono i Down più sabbathiani suonati a un quarto della velocità), alzano da terra foschie polverose che nascondono allocchio la sostanza delle cose (Maidens Catafalque è un bellissimo inciso psych) e dipingono un congedo di placido e rasserenato melodismo southern (A Wretched Country Of Dusk). È un flusso immaginato per essere esperito nella sua interezza, che potrebbe non avere mai fine e che, per un attimo, dà esattamente limpressione di non poter essere arginato: ma è una fluvialità che va contro la relativa economia temporale delle recenti creazioni di Carlson e che, soprattutto verso la fine (gli Across Tundras narcotizzati di An Unnatural Carousel, i salti di tono bluesy di The Mandrakes Hymn), si ritorce contro la tenuta complessiva del disco, mettendolo alle corde.
Una maggiore condensazione spaziale si sarebbe tradotta in una valutazione più generosa, ma è un criterio formale del tutto soggettivo che non intacca il valore contenutistico del disco. Ventisei anni dopo lesordio lungo, il viaggio degli Earth sembra non essere ancora giunto ad un punto fermo.
Tweet