Bob Dylan
Tempest
Non era facile, neanche per uno come Bob Dylan, tornare semplicemente a fare musica, a scrivere canzoni, a spremere dal nocciolo della sua creatività qualcosa dinedito, qualcosa che non fosse stato già detto, commentato, esegetizzato (dio, che parola tremenda che ho tirato fuori ), fatto proprio da qualcun altro. Lopera numero 35 del Poeta Rock per eccellenza cade, infatti, al termine di una decade in cui le celebrazioni attorno alla sua figura, alla sua eredità, al suo passato hanno toccato apici parossistici, assumendo spesso i contorni di una vera e propria canonizzazione (roba da toccarsi i voi sapete cosa sì, insomma, da fare gli scongiuri): due film che a loro modo lasceranno un segno nella storia del cinema, lenciclopedico documentario di Scorsese e le originalissime vite dylaniane parallele di Haynes, un premio Pulitzer (unico musicista nella storia, a parte un certo John Coltrane), la Presidential Medal Of Freedom da Barack Obama e una serie infinita di libri, speciali, tavole rotonde, tributi. Unaura tale da trasformare una leggenda vivente in un mito nel senso classico del termine, oggetto di un culto misterico ed oracolare, al di fuori del tempo, refrattario ad una qualunque storia collettiva o personale, personalità disincarnata, dallidentità plurima, mercuriale, indecifrabile come Shakespeare, come Omero, come Rimbaud: le sue tre metempsicosi letterarie principali.
Difficile, dunque, tornare coi piedi per terra, riprendere in mano la chitarra e larmonica, carta e penna nel proprio studio e far finta che non sia successo nulla, di non essere, volenti o nolenti, un fuoriclasse di 71 anni suonati, con due decenni di dischi più o meno mediocri sulle spalle, interrotti da qualche bel numero dei suoi (il brano Things Have Changed, premiato con lOscar nel 2001, ad esempio). Difficile ma non impossibile, perché stiamo pur sempre parlando di Dylan e perché, come dicevamo pocanzi, gli ultimi lavori brillavano, per usare un eufemismo, solo di luce riflessa. Anche se non ce la sentiamo di accodarci al coro di lodi, eccessive e in qualche caso persino imbarazzanti, che questo disco ha sollevato un po ovunque, va detto subito che Tempest è un lavoro più che discreto, uno dei migliori del suo periodo senile, specchio di un autore/musicista che affronta con invidiabile (residua) energia il suo sesto decennio di carriera. Prodotto dallo stesso Dylan con lausilio di una vecchia volpe come Scott Litt e suonato dalleccellente formazione classica che lo ha accompagnato negli ultimi anni (dove spiccano David Hidalgo dei Los Lobos, alla chitarra, accordion e violino, Tony Garnier al basso e Charlie Sexton alla terza chitarra), Tempest riparte dalle sonorità più terragne e vibranti del suo sterminato songbook, dai dischi più roots e bluesy di fine 60, inizio 70 e rimane sostanzialmente compatto a livello di scrittura, nei suoi quasi 70 minuti di musica, senza grandi invenzioni, né rovinose cadute di tono.
Un colpo da maestro lo piazza indubbiamente la title-track: epica aria folk (circa dodici minuti) in stile irish/appalachiano (acustica, accordion, violino), funzionale alla narrazione poetica (superba, va da sé) di Dylan che rivisita metaforicamente la tragedia del Titanic come una specie di tragicomico giudizio universale, un misto di James Cameron, T.S. Eliot e The Rhyme Of The Ancient Mariner. La buona ispirazione che sorregge il pezzo lo induce ad insistere, nella seconda parte del disco, su quel tipo di brani lunghi, dal fraseggio ampio e lento e dal testo poemico, torrenziale, con risultati diseguali: gli va bene con Scarlet Town, quasi una Desolation Row della terza età dove, con pennellate liriche impeccabili, tratteggia in chiaroscuro unimmaginaria provincia americana, una sorta di sospesa e purgatoriale Spoon River; meno con Tin Angel, macabra ballata damore e vendetta che sfocia in un finale fra lelisabettiano e il tarantiniano, estenuante e polverosa nella sua scarna ripetitività. Mentre con la conclusiva Roll On, John, dedicata a John Lennon, Bob ci accompagna dalle parti di Blood On The Tracks o Desire, ma che sono passati quasi quarantanni, come dire, si sente.
Ben più vivace e ricostituente è invece la prima metà della scaletta, dove Dylan e i suoi, terminata la lectio magistralis, rispolverano groove, ritmo ed elettricità daltri tempi in una serie di brani che magari non passeranno agli annali ma risultano comunque piuttosto incisivi: qui lUomo che non Cera, la voce rauca, ossidata e beffarda da vecchio stregone, si muove con disinvoltura fra il country-swing ferroviario delliniziale Duquesne Whistle, il blues arso e roccioso alla Muddy Waters di Narrow Way e Early Roman Kings, fino al rock tagliente e astioso di Pay In Blood, tipica invettiva tardo-dylaniana, dai toni biblici e un po astrusi, contro la decadenza e la corruzione della società contemporanea. Passando per due brani ruvidi e romantici, intrisi di nostalgia e di amarezza, reminiscenti, si parva licet, delle varie (e inimitabili) Just Like A Woman e Like A Rolling Stone: Soon After Midnight e soprattutto Long And Wasted Years, con la loro galleria di figure femminili misteriose, capricciose e ingannatrici che abbiamo imparato a riconoscere, che ci pare daver conosciuto da sempre.
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