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6,5/10

I Hate My Village

I Hate My Village

Partiamo da due termini in libera (ma nemmeno troppo) associazione: Nollywood e “Tubi Innocenti”. L’uno si riferisce colloquialmente all’industria cinematografica nigeriana, un colosso da svariate centinaia di milioni di dollari e da migliaia di produzioni l’anno, tanto impressionante nelle dimensioni e nel fatturato quanto ancora relativamente sconosciuto alle latitudini euroamericane: l’altro è il singolo trainante di “Film O Sound” (2015), secondo disco solista di Adriano Viterbini, chitarrista dei Bud Spencer Blues Explosion lì alle prese con una contagiosa tessitura afro-math fra Tinariwen e Battles (cortesia del superospite Fabio Rondanini dietro le pelli). Insperato punto d’incontro fra i soggetti, I Hate My Village. Che non è solo il nome di un incredibile cannibal movie ambientato all’ombra di Lagos sul finire degli anni ’90, ma anche un progetto di lusso che Viterbini e Rondanini hanno messo in piedi coinvolgendo alla voce, tra le macchine dello studio di registrazione di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle (quarto membro aggiunto al basso per il tour in fase di avvio), Alberto Ferrari dei Verdena. C’è chi direbbe supergruppo: e chi, anche più realisticamente, parlerebbe di chiosa ipertrofica alle esperienze terzomondiste di Viterbini e Rondanini, in recente e fruttuoso contatto con nomi del calibro di Bombino e Rokia Traorè.

Quello dato alle stampe è un esordio omonimo molto breve (nemmeno venticinque minuti: praticamente un EP) e non poco interessante, che in prima battuta riconferma due assiomi: se la retromania vince sull’invidia e sull’odio, l’Italia musicale è un pendolo che oscilla tra infatuazioni e rinnegamenti post-coloniali. Brano simbolo è “Acquaragia”, in cui Ferrari canticchia assorto una filastrocca anglofona, intrappolato in una gabbia di polimorfiche geometrie world-blues (also sprach griot Viterbini): è anche l’unico pezzo in cui la compenetrazione fra componente strumentale e vocale si fa assoluta, lontana dai baluginii glam che increspano la superficie del mantra urban di “Tony Hawk Of Ghana”, dalla ludica pantomima di James Brown sul funk ruzzolante e devastato dal wah di “Fare Un Fuoco” o dalla spiritata interpretazione dello spiritual sulfureo di “Fame”. Sull’effettiva opportunità di aggiungere il cantato alla ricetta, insomma, bisognerà ragionare ulteriormente, visto e considerato che il prezzo del biglietto lo si paga soprattutto per ascoltare le maestrie tecniche degli incroci chitarra-batteria: queste, va detto, quasi sempre soddisfano le aspettative, che si vada dal crimsoniano rāga afro-kraut di “Presentiment” al solismo abrasivo (Tom Morello anyone?) esibito nel post-blues da falò di “Tramp”, dalla balsamica salmodia in punta d’arpeggio – e in spatolate di octaver – di “Bahum” alle scatenate contorsioni exotic-prog di “I Ate My Village” (quasi una riedizione sotto efedrina di, et voilà!, “Tubi Innocenti”).

Pur non entusiasmando, il disco convince e si fa riascoltare a ripetizione, ogni volta nella speranza di cogliere un dettaglio prima passato inosservato. Rimane grande la curiosità, questa sì, di esperirne al più presto la dimensione live, performativa. 

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fabfabfab alle 13:50 del 14 gennaio 2019 ha scritto:

No ma è già uscito?

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 18:40 del 30 gennaio 2019 ha scritto:

Interessante commistione di desert/psych blues e afro beat - credo il primo tentativo italiano di un certo spessore. Interessante, sì (specie il tratto fuzz e abrasivo dato al sound), sebbene rispetto al genere non così originale. "Fame" e "Tramp" top. Bravo Marco