The Rolling Stones
Between the Buttons
“Non è morto, nè dorme: si è svegliato dal sogno della vita”
(da “Adone” di P.B.Shelley, Mick Jagger al concerto di Hyde Park)
"Brian dagli occhi gonfi, sofferenti e onniscienti da pesce, i vestiti incredibili, le magnifiche sciarpe, Brian sempre all'avanguardia, il perfetto Brian"
(Lou Reed)
“Hai lasciato il tuo / Nulla / A gareggiare con il / Silenzio / Spero che tu sia uscito di scena / Sorridente / Come un bambino / Nei freschi rimasugli / Di un sogno…”
(da “Ode ad L.A. pensando a Brian Jones, deceduto” di Jim Morrison)
Un aspetto inquietante - morboso ed insieme terribilmente affascinante - insito nella blasfema parabola degli Stones è l’impressionante sequela di morti, perdite, incidenti e abbandoni che ne hanno costellato la carriera. Neanche la loro musica fosse una specie di tentacolare Moloch che si alimenta grazie ad un continuo ed oneroso tributo di sacrifici umani. In quest’ottica la scomparsa di Brian Jones (o per meglio dire il suo martirio, la sua abiura, la sua esecuzione) rappresenterà un punto di non ritorno, un vaso di Pandora, rovesciato il quale, risulta di fatto impossibile distinguere, nella loro storia, il prima dal dopo. Un incendio che camminerà con loro.
Un maligno anatema che si spande in cerchi sempre più vasti sul lago di fuoco del rock. Non solo per l’indubbia parte che nella sua distruzione fisica e morale hanno recitato i “gemelli” Jagger & Richards, secondo un plot che mescola il “Faust” al “Fantasma dell’opera”, “Le notti bianche” a “William Wilson”, convogliandoli in un finale assurdo degno di “Fargo” o di “Paranoid Park” – discorso per il quale vi rimando all’ottimo articolo “La morte ai bordi della piscina: Brian Jones” pubblicato su Rock’n’roll noir (www.drivemagazine.net) – ma, restando in un ambito preminentemente musicale, per l’eclettica, titanica, sfrenata egida creativa del personaggio in questione.
Polistrumentista di estrazione jazz precocemente innamoratosi di Charlie Parker e dotato di un inclinazione mozartiana tanto per la musica (suonava di tutto fin dall’infanzia, dall’organo al clarinetto) quanto per il sesso (ebbe sei figli da altrettante donne nel breve volgere dei suoi 27 anni), dopo aver girato a lungo per il nord d’Europa esibendosi un po’ dovunque, dai night club agli angoli di marciapiede, giunto all’appuntamento fatale con Jagger e Richards, già introdotti al milieu dell’”Ealing club blues”, Jones divenne il primo ispiratore, arrangiatore e provocatore della band, collettore e catalizzatore di un’energia panica e primordiale che trasfuse ai compagni fino ad uscirne progressivamente svuotato. Between the buttons ancor più che Their satanic Majestic request, è il disco che ne consacra il genio alla posterità, il suo testamento artistico e spirituale.
L’altare di un culto surreale ed esoterico, caleidoscopico e camaleontico, scolpito su vinile ad un anno esatto dall’avvento del dogma di stretta osservanza blues-rock che segnerà i capolavori della maturità (e la dipartita dello stesso Jones). Parafrasando il titolo del loro penultimo (e penoso) album, un ponte gettato fra le due sponde della Babilonia anglo-americana: country, blues e folk, da una parte, musichall, mersey-beat e pop barocco, dall’altra. Influenzato dall’art rock di Pet Sounds e di Blonde on Blonde, superbo discendente del cromatismo rhythm’n’beat di Aftermath e degli acquerelli kinksiani del biennio precedente, Between the buttons esce nel gennaio/febbraio del 1967. Pennellati alla luce opalescente d’un fuori fuoco/fuoco, ritroviamo i cinque per l’ultima volta tutti insieme su una copertina.
La fantasia “edoardiana” e psichedelica di Jones, superbamente coadiuvato da un ensemble allagato a Ian Stewart, Nicky Hopkins e Jack Nitzsche, si compenetra nella sezione ritmica arcigna ed affilata di Wyman e Watts, forse la più epidermica ed abrasiva di ogni tempo, con le iniziali Yesterday’s papers (stereofonia mersey-beat armonizzata su uno skiffle sferzante punteggiato di clavicembalo e xylofono) e My obsession (stop’n’go sincopato che avvicenda lo shouting debosciato di Jagger ad un’angelicata polifonia pentecostale, impreziosito dalle figure boogie del piano di Hopkins), ma rifulge soprattutto nei “lenti”: la struggente Backstreet girl (con Jones alla farfisa e alle marimbas e Nitzsche al clavicembalo), sarcastica ode boulevardienne alle relazioni extraconiugali con cui Jagger affonda la lama del cinismo nel ventre flaccido dell’ipocrita permissivismo che alligna fra i salotti buoni della Swinging London e She smiled sweetly con il suo basso enfio e ridondante, le sue eleganti volute di piano e di Hammond che traducono lo shuffle in una cantata madrigalesca.
In Connection Brian resuscita i licks blues di Richards per uno sketch da musichall in cui Jagger, tanto per chiarire che i Kinks sono un’altra cosa, dileggia Scotland Yard, ironizzando sui recenti guai giudiziari del trio: “My bags they give a very close inspections / I wonder why it is that they suspect me / They’re dying to add me in their collections / and i don’t know if they’ll let me go”. Semplicemente geniale, fa convivere il fischiettio del suo Hammond con il fuzz di Richards, alternandoli a tempo di carica nel vaudeville tribale di Complicated. Poi ancora un trittico di capolavori: Cool, calm and collected che a passo di charleston (per kazoo, trombone e armonica a bocca) deraglia ben presto in un fortunale ragtime verso una coda vorticosa e semi-improvvisata in cui sembrano la Salvation Army che sfila trafelata per i bassifondi inseguita da una muta di cani rabbiosi; Please go home un tam tam lisergico complicato da dissonanze di trombone, jug, feedback e theremin e riecheggiante di collage vocali; Something happens to me yesterday, forse l’episodio più “beatlesiano” della loro carriera, un contagioso inno all’LSD intonato, però, con la lascivia di una big band di Storyville (Jones si divide fra archi ed ottoni).
E se Miss Amanda Jones (rockabilly sboccato alla Chuck Berry) è un pezzo sullo stile del loro primo repertorio, Who’s been sleepin’ here tradisce l’ammirazione di Jagger per il “nuovo” Dylan con un talkin’ folk/blues che intruglia l’armonica a bocca con il jug elettrico e l’arpeggio acustico di Desolation Row (e liriche spassose che imitano la maniera simbolista del chiromante di Duluth). Nell’edizione americana il gruppo incluse anche Let’s spend the night together, un boogie percussivo dal testo osceno che era già volato ai vertici dei singoli inglesi l’anno prima (scatenando una delle più grandi ondate di indignazione e censura preventiva mai viste ante God save the queen; molte stazioni, invece, “bipparono” soltanto la parola “night”) e Ruby Tuesday, pop da camera con un flauto che duetta con la voce, contrappunti di piano e contrabbasso e un ritornello facile, facile (oro colato, per i Beatles!) che ammicca al rapimento amoroso hippy e che frutterà loro il numero uno di Billboard.
Between the buttons fa storia a se. Una storia dal lato sbagliato della storia. Un’ ucronia di mondi musicali possibili, lo sterminio dei quali porterà alla nascita del più grande modus hard-blues dell’evo moderno, nel periodo 68-72. La sua controparte femminina e dionisiaca. Un pulviscolo di sogni romantici, generosi e bizzarri che riverberano a faccia in giù contro lo specchio eterno e placido di una piscina. Grazie Brian.
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