R Recensione

8/10

Xavier Rudd

Dark Shades Of Blue

Dannato Xavier, questa volta c’hai davvero fregati.

Eppure tu l’avevi annunciato a caratteri cubitali, col tuo solito sorriso sornione, che l’ennesimo capitolo del tuo favoloso percorso musicale sarebbe stato, testualmente, “molto più cupo e pesante dei precedenti” anche se, poi, stemperavi il tutto con un poco convincente “c’è anche molta luminosità in questo disco”. Ma, con onestà, chi mai ti avrebbe potuto credere? Eravamo qui, pronti ad accogliere altre ballate folk, a sentirti cantare il tuo amore per la natura attraverso quel didgeridoo, ad applaudire le tue svisate sull’acustica (voi australiani siete così, dei draghi: anche John Butler ne sa qualcosa), a sperare in un lavoro del calibro di “Food In A Belly” o “White Moth”. Ci avevi abituato così, caro Xavier e, non prendertela a male, ma non sei esattamente l’artista che, da un momento all’altro, decide di rivoltare completamente il suo modus operandi.

Ce l’hai fatta, sotto il nostro naso da stanchi snob. Persino la copertina è diversa dal solito: scura, ruvida, introspettiva. Fa un contrasto micidiale con le bacche e le ghirlande di agrifoglio di “Food In A Belly”, o il tramonto tinta pastello di “Solace”, non è vero? Questo è “Dark Shades Of Blue”, sottotitolo: il lato nascosto di Xavier Rudd,che ancora non conoscete. E se l’equazione 2 + 2 = 4 è chiara ed assoldata tanto quanto il lampante rigore ai danni di Marchionni non dato durante il Derby d’Italia di sabato sera, non può essere un caso nemmeno che l’etichetta si intoni perfettamente col contenuto generale del pacchetto. Epitaph. Ma come abbiamo fatto a non capirlo?

Xavier è sempre il solito istrione, una one-man band senza bisogno di pseudonimi ingannevoli. Tutto quello che sentite, dalla voce alla chitarra (spesso e volentieri in fingerpicking), alle percussioni, ai fiati, all’armonica, fino alla produzione, passa per il biondo trentenne. Un Mike Oldfield sulla tavola da surf, panstrumentista più che polistrumentista, che parla con la delicata voce di Paul Simon e suona come il Ben Harper dei primi tempi filtrato attraverso la tradizione reggae e il rock roots degli anni ’40. Qualcosa forse non vi quadra? State tranquilli, il risultato finale è notevolmente più semplice e meno accademico di quello che dovrebbe in realtà sembrare.

L’aria che tira fra questi solchi è, però, davvero diversa.

Pochi secondi. Il suono vibrante del respiro che attraversa l’eucalipto del didgeridoo è meno che una frazione di respiro. È solo una breve presenza del Rudd che conoscevamo e che, tutt’a un tratto, viene inghiottito in un baratro nerissimo. La chitarra che ricopre “Blackwater”, da sola ed indiscussa protagonista, sembra quasi quella di un mistico Robert Johnson in periodo grunge, sotto le scorze siderurgiche dei Tool. Non è ancora finita, perché un ponte di feedback ci trascina a fatica verso la title-track, grattugia hard blues lenta e cadenzata, distorta come mai prima d’ora. Perfino la voce è cambiata: roca, spezzata, che spesso e volentieri lascia parlare al suo posto l’elettricità della sei corde. Da andarci pazzi.

Con presupposti così lontani da quella che era diventata una piacevole monotonia stilistica, si rischia davvero di interpretare ogni singolo pezzo in chiave differente da quella che in realtà si dimostra essere, col risultato di fraintendere in larga parte l’anima di “Dark Shades Of Blue”. Aveva ragione Xavier a dire che, fra le fitte maglie di oscurità che avvolgono il disco come uno scialle, traspare tuttavia qualche fioco bagliore. Ecco, perciò, i tenui ritmi in levare di “Edge Of The Moon”, splendido reggae per vocoder, lap steel e armonica, o gli intensissimi sette minuti di “Secrets”, desertico saggio chitarristico dove la voce rimbomba nel vuoto interiore.

Ma hai voluto fare le cose proprio per bene questa volta, vero, Xavier? Niente spazio per sentimentalismi o canzoncine da imparare in una volta sola. Questa tappa dev’essere metabolizzata con attenzione, dev’essere capita bene. Frammenti, schegge di avventura, diari di bordo, che devono entrarti dentro. “This World As We Know It” è così strana: ma sei davvero lo stesso autore di “Shelter” o “Connie’s Song”? Sparata ad alti volumi potrebbe addirittura creare problemi nel vicinato. È il demone del rock’n’roll, che ti ha fatto comporre “Up In Flames”? Ci sono strati e strati di tradizione nera, qui dentro, che percuoti con giri di fuoco pieni e vibranti, quasi zeppeliniani.

E quando, alla fine del viaggio, scegli di fermarti e di guardarti dentro, cosa può accadere? Succede che occupi quasi sedici minuti per quelle “Shiver” ed “Uncle” che, ascoltate con la giusta attenzione, sciolgono dentro. Cavalcate world, mozzafiato la prima, molto più ritmata e serrata la seconda, dove le percussioni diventano zoccoli di cavalli che tamburano il terreno e la chitarra rappresenta le briglie sciolte, al vento, con code strumentali davvero imponenti, quasi free form nel loro perpetuo mutare.

Dark Shades Of Blue” vi colpirà tutti nel profondo, indistintamente. Sia chi non conosceva l’artista australiano, sia già che aveva potuto ammirarne le gesta, e qui ritroverà davvero pochi denominatori comuni (il ruggito del didgeridoo in “Guku”?).

E il cielo è sempre più blu (scuro).

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
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3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
target 7/10

C Commenti

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target (ha votato 7 questo disco) alle 19:16 del 3 dicembre 2008 ha scritto:

DidgeriRudd

Ma è stato un anno tra gli aborigeni il Rudd per venirsene fuori con un disco così? Non male, comunque, e sicuramente molto compatto; boschivo. A me quelle "scorze siderurgiche" alla Tool non piacciono granché, ma certi pezzi sono grandi momenti tribalistico-folk: "guku" e "hope that you'll stay", per dirne due. Bella marco.