R Recensione

6/10

Ozric Tentacles

The Yumyum Tree

Una domanda propedeutica, prima di iniziare. Quanti gruppi, nel corso della storia, pur andando incontro ad un numero incalcolabile di fratture, litigi, defezioni, o anche solo attraversando due differenti epoche musicali, sono riusciti a rimanere fedeli a sé stessi, creando un suono che, nonostante fosse ogni volta diverso, avesse punti fermi immediatamente riconoscibili da adepti e profani? Chi ha resistito con fierezza al tempo ed alle mode, evitando di metamorfizzarsi e di agitare la banderuola secondo il vento conveniente, imperversando nei propri stilemi a costo di sembrare stucchevole e cristallizzato? Nella ieratica, ristretta cerchia del “squadra che vince, non si tocca” di herreriana eloquenza occorre certamente fare menzione del collettivo inglese degli Ozric Tentacles, sulle scene da oltre un ventennio, vero e proprio ponte tra Woodstock e Detroit, fra acidi e basi, tra rivoluzione umana ed anarchia sintetica, tra psichedelia e cultura rave. Ciò che molti non hanno saputo esprimere né in uno, né nell’altro campo, gli Ozric lo hanno coniugato alla perfezione in una manciata di dischi memorabili, levitanti, rarefatti, con a caposaldo lo splendido “Jurassic Shift” (1993), unico loro lavoro ad affacciarsi anche nelle classifiche di vendita britanniche.  

Con i loro stroboscopici scenari da “Mille e una notte”, onirici e multicolori come nella migliore tradizione – quasi dovessero fare la gioia dell’hippie e del raver sempre e comunque! –, la band approda a questo “The Yumyum Tree” dopo aver perso per strada Champignon – un nome, un destino: leggi, da fungo a fungo… - , alias John Egan, alias flautista del gruppo alias chissà quante altre cose (oddio, dite che la Digos ci legga?). La perdita del loro componente più visionario si impone, con un contraccolpo pesante, sul resto dei membri, creando un vuoto pneumatico di difficile sopportabilità e rendendo pesante lo scorrimento dei nuovi brani, decisamente meno fluidi che in passato. Sebbene il risultato non sembri cambiare granché ai primi ascolti, grattando appena sotto la superficie si rimane sbalorditi nel vedere come non ci sia quasi nulla, di particolarmente forte, da reggere ad una vivisezione più coscienziosa e scrupolosa del materiale quivi composto.  

Ancora una volta, di fronte ad un momento di difficoltà interna, gli Ozric Tentacles scelgono la strada più semplice per preservarsi: non osare. La ricetta, per l’ennesimo break, rimane perciò invariata: una massa lavica gonfiabile di chitarre, riverberi, sintetizzatori e percussioni esotiche, che si agita sotto propulsori di volta in volta techno, jazz, space rock e via elencando. Pezzi che richiedono una certa predisposizione mentale a considerare nulle le barriere intergeneri, slanci di completa libertà strumentale che si specchiano in laghi di ritmiche, mordenti che s’incastrano con crudezza frammezzo alle trame, eppure qualcosa non torna ed i più avveduti non tarderanno troppo ad accorgersene. Ciò che si perde è la continuità, la capacità di non smarrire il filo pur tenendo in piedi decine di discorsi diversi e, se proprio vogliamo affondarla alla grande, quasi del tutto quel carisma che impediva alla forma di sopravanzare il contenuto.  

Magick Valley”, funk arabeggiante con il classico assolo centrale fra Jimi Hendrix e John Cipollina, apparirà perciò poco meno che fatua, destinata a sciabolare i propri non-colpi con grazia ai primi ascolti, salvo poi essere inghiottita nel nulla (per rimanerci, s’intende): è appena migliore “Oddweird”, che rinfresca un’ubriacante visione psichedelica ad alto voltaggio con offuscati travasi sintetici, che potrebbero rimembrare i MGMT: ma poi arriva “Oolong Oolong”, ondeggiante impasto new age segato in due da una chitarra fin troppo visionaria, e si comincia davvero a perdere la pazienza. Passi una, due, cinque, dieci volte, ma il giochino ormai comincia a stancare.  

Arrivano segnali migliori dalla seconda parte del lavoro, seppure i coefficienti rimangano sempre gli stessi e, al netto, si percepisca solamente un incremento del versante elettronico a scapito di quello elettrico. La lunga title-track, ad esempio, martella sui timpani con un loop certamente rubato a qualche free party, sciogliendolo in un basso sussultante e frizionandolo col desueto sovversivismo chitarristico: “Plant Music” è la colonna sonora del nuovo iperspazio kubrickiano, con gemiti, sussulti ed effettistica della più varia – e secondo voi, poteva mancare un’acidissima chitarra ad accompagnarci in questo trip interstellare? Rispondetevi da soli –, mentre “San Pedro” chiude elegantemente, fra raffiche di percussioni che si addensano sull’ombra di un cielo scurissimo, fra Gong e Hawkwind.  

Non è assolutamente abbastanza, però, per non pensare che, forse, abbiamo perso anche loro. Speriamo di sbagliarci, ancora una volta, e nel frattempo aspettiamoli, al varco di Alpha Centauri...

V Voti

Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 3 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
motek 7,5/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

matteolostrambo (ha votato 8 questo disco) alle 15:00 del 15 giugno 2009 ha scritto:

complimenti per la scelta... sono una band molto sottovalutata, me li ha fatti scoprire mio padre con Strangeitude... bravi per davvero e complimenti ancora

Dr.Paul alle 21:46 del 15 giugno 2009 ha scritto:

visto come stanno le cose passo, ma certo sono stati un gruppone! li ho conosciuti tramite un negoziante....stavo comprando un porcupine tree di quelli fichi, diciamo periodo 93/99, e il negoziante mi disse "se ti piacciono i tree prova anche gli ozric tentacles", cominciai ad informarmi su di loro, qualche ascolto rubato nn so dove, è stato un bel momento, pungent effulgent forse il mio preferito!