V Video

R Recensione

6,5/10

Goatman

Rhythms

Coerentemente con la loro indisponente natura situazionista, le ultimissime di casa Goat ci restituiscono una band che – alla faccia dell’ironico “Requiem” di un paio d’anni fa – è più viva e attiva che mai, anche se (momentaneamente?) su formati alternativi al canonico full length. Dopo il sontuoso live “Fuzzed In Europe” (2017) e la soundtrack a tiratura limitata per la dark comedy Double Date (Danny Morgan, 2018), in maggio ha fatto rumore la release a sorpresa di un 7” in vinile contenente il singolone “Let It Burn” – autodefinito, non senza ironia, “miglior traccia che la band abbia mai prodotto” – e la b-sideFriday Pt. 1”. Segnali inequivocabili di un nuovo disco in arrivo? Chissà. Mentre le menti migliori della nostra generazione entrano in cortocircuito cercando di risolvere l’insolvibile, dopo Capra Informis un altro membro del collettivo svedese, Goatman, inaugura il proprio spin off solista, questa volta direttamente su formato lungo. Nessun arcano incantatore: “Rhythms”, pensato come una (filologicamente rispettosa) raccolta di studi sul groove, è un disco esplicitamente tarato su misura dell’ascoltatore e del suo godimento estetico.

Sebbene le pretese non siano alte e la derivatività un dato di fatto riconosciuto a priori per evitare qualsiasi critica, il disco riserva più di qualche momento interessante. Abbastanza eterogeneo, in senso positivo, il materiale proposto: si va dalla library d’autore di “Limelight” (bordone d’organetto, evoluzioni melodiche vicine al Morricone di Metti, una sera a cena, inserimento parodistico di percussioni elettroniche) alla grassa jam afro-funk di “Jaam Ak Salam” interpretata dal senegalese Seydi Mandoza (i fiati, autentici e potentissimi ordigni Motown, sono suonati da David Byström e Johan Asplund), dal mantrico e incendiario psych-gospel di “Carry The Load” sospeso tra percussioni, flauti andini e ottoni free jazz (voce femminile di Amanda Werne degli Slowgold) ai berberismi bandistici della suadente “Hum Bebass Nahin” (squarciata da un sanguigno solo colemaniano) su cui Amerykhan rapsoda le proprie litanie. Qualche sospetto di calligrafismo superfluo riemerge solo nel finale, con la danza del sole di “Aduna” – affidata ancora una volta a Mandoza – scientemente calcolata tra Amanaz e Mulatu Astatke e il malinconico rāga acustico di “Baaneexu” che si inerpica su sintetiche armonie spacey un po’ fuori contesto: potrebbe essere eccesso di pignoleria, ma la sensazione è che si tratti di un epilogo di comodo.

La valutazione conclusiva, pur tenendo conto di queste imperfezioni, non sminuisce comunque il quadro d’insieme: che, sinteticamente, ci rappresenta un disco breve, compatto ed efficace nel perseguire i suoi obiettivi. Tanto basti.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.