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R Recensione

9/10

Young Marble Giants

Colossal Youth

La piatta provincia del Galles è lieta di presentarvi Alison Statton e i fratellini Stuart e Philip Moxham: tre cantori “devoluti” della new wave britannica e prodotti tutt’altro che orgogliosi di quel deserto artistico e culturale che è la città di Cardiff (il loro ben poco entusiasta concittadino Green Gartside – alias Scritti Politti – ve lo confermerà senza esitazione). A dir la verità, in origine i cantori erano quattro: Peter Joyce (cugino dei Moxham) abbandona quasi subito ma fa in tempo a “convertire” gli altri alla sua passione per i ritmi sintetici e le sonorità very cheap di un sintetizzatore fatto in casa. Una manciata di nomi tutelari (i soliti Velvet e Roxy ma anche Devo, Kraftwerk, Eno, Suicide) e i superstiti iniziano a mostrarsi in pubblico con una inedita formazione a tre (voce, chitarra, basso) più il supporto ritmico di una poverissima drum machine riprodotta dal vivo con un mangianastri mono. “Amatoriale” è fin da subito l’aggettivo più indicato per descrivere il gruppo e la musica: una meravigliosa aura di precarietà e anti-spettacolarità di cui saranno in molti ad innamorarsi. Bastano infatti un paio di brani sulla compilation "Is The War Over?" curata dall’etichetta locale Z-block per conquistare l’adorazione incondizionata di Geoff Travis della Rough Trade (hai detto niente…), evidentemente ansioso di fare del gruppo gallese la punta di diamante del suo vivaio già floridissimo.

Colossal Youth (Febbraio 1980) lo si subisce, molto semplicemente. Una leggerezza pop che inquieta proprio perché ottenuta tramite l’appiattimento dei toni, attraverso un processo di epurazione che salva soltanto le impalcature. Il cicaleggio della Rickenbacker di Stuart (anche autore principale) non lascia scampo, ti ipnotizza manco fosse una serpe che si attorciglia ad un basso bronzeo, abbagliante nel suo virtuosismo melodico. È tutto un gioco di superfici monocromatiche, di spazi. Eppure manca la profondità, il senso della prospettiva: la musica degli Young Marble Giants è mono-dimensionale proprio perché gli strumenti - che, a farci caso, sono in moto perpetuo – non vogliono dare consistenza volumetrica all’insieme.  

“Searching For Mr. Right” vigila come un sismografo nel suo registrare variazioni minime (e minimali) di umore e fraseggio, con l’ugola timida della Statton che emana luce bruna da chanteuse ibernata. Una voce, la sua, quasi inconsapevole delle trame sonore che la sorreggono, e che sovente si cristallizza in spirali di notine balbettate in punta di piedi (la superba “Music For Evenings”) o implode, come in “Colossal Youth”, in vocalizzi da Francois Hardy autistica appena rallegrata dalla grazia bianca di un organetto.

Compresso ed espanso fino a distillarne tutte le sfumature ritmiche, il basso si prodiga in avvincenti giochi di mimesi: sornione in “Wurlitzer Jukebox” e nei suoi salti d’ottava giostrati con fare smaccatamente funk; virante all’algida sinuosità delle “teste parlanti”in “Salad Days”; nervoso e saturo di microtoni nel districarsi fra gli ingranaggi rotanti di “Constantly Changing”; denso di slabbrature in “Credit In The Straight World” e “Brand New Life”: canzoni che, se amplificate a dovere e dotate di una batteria a pieno regime, potrebbero passare per inni post-punk di tutto rispetto. Il bello è che questo non accade mai, ed è una gioia (ancora “Music For Evenings” e ancora e ancora e ancora…).

La chitarra, da par suo, si muove su coordinate ancor più esili: dai timbri secchi e opachi della Title Track alle fioriture stile Duane Eddy che fanno capolino nello spolvero noir “Choci Loni”, le corde si pizzicano in sordina (gettonatissima la tecnica del muting) o si arpeggiano con discrezione, nulla più. Giusto un micro-assolo al distorsore che intrude nel bel mezzo di “Include Me Out”. Poi basta, per davvero.  

Quel che resta sono le pulsazioni lo-fi di “N.I.T.A.”: alchimia di movenze da cui si spargono sentori alabastrini, come un sorridente Martin Rev che copula con minacciosi modulatori ad anello e oscillatori artigianali. “Eating Noodemix” come scheletro di uno “ye ye”, con i sussulti reggae della sei corde e il basso lisciato felinamente. La grammatica dei Residents invischiata nei loop di tastiere-giocattolo di“The Man Amplifier” (gli Stereolab ringraziano), superba filastrocca per adolescenti lobotomizzati. Brian Eno, tornato paffuto bambinello, che si sporge dal finestrino di “The Taxi” e saluta con la manina gli aeroporti grandi grandi, ancora inafferrabili.

Finito. Mezz’ora buttata lì. Un gesto così potente da ferirti, che fa il vuoto attorno a sé. Un “gigante di marmo” in formato tascabile che ti fissa e tu non osi incrociarne lo sguardo, nel timore che tanta immobilità possa tutto d’un tratto esploderti addosso.

Peccato che le tensioni interne (in particolare fra Stuart e la Statton, sopportata solo in quanto ragazza di Philip) incrinino il delicatissimo equilibrio su cui si regge la band. C’è giusto il tempo per pubblicare il notevole singolo “Final Day” e portare a termine un tour americano in compagnia dei Cabaret Voltaire, poi ognuno s’incammina per la sua strada, chi con poco e occasionale successo “di seconda mano” – “Love At First Sight” dei Gist (la band di Stuart) nell’86 diverrà un discreto hit in terra francese nella versione di Etienne Daho rinominata “Paris Le Flore” –, chi perso nella beatitudine dell’anonimato.

Ma lasciate perdere tutto questo per un momento e concedetevi senza remore a Colossal Youth, oggi reperibile nella “totalizzante” edizione della Domino comprendente ben 41 brani, tra i quali il singolo “Final Day, la session per John Peel e l’EP strumentale “Testcard” dell’81: in pratica tutto il materiale inciso dal gruppo durante la sua brevissima esistenza. Starsene ad elencare i nomi che hanno attinto da questo prodigio (che pure ci sono: dai già citati Stereolab fino agli odierni Fiery Furnaces, passando per gran parte dell’indie-pop più creativo degli ‘80s) o le celebrità che lo venerano è fuorviante: soltanto abusando negli ascolti vi renderete conto di come Colossal Youth sia “il” disco che prima o poi doveva essere registrato. Grazie al cielo l’hanno fatto gli Young Marble Giants. Che Dio li benedica.

V Voti

Voto degli utenti: 8,9/10 in media su 12 voti.
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londra 9/10
Cas 9/10
REBBY 7,5/10

C Commenti

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londra (ha votato 9 questo disco) alle 18:51 del 5 ottobre 2007 ha scritto:

Un bel momento per risentirli. Bellissima recensione. I miei complimenti e un saluto al recensore

loson, autore, alle 16:13 del 6 ottobre 2007 ha scritto:

RE:

Ti ringrazio molto e contraccambio i tuoi saluti. Già ci conosciamo?

barkpsychosis (ha votato 9 questo disco) alle 14:30 del 9 ottobre 2007 ha scritto:

notevole

spettacolare recensione di un disco fondamentale della new wave Vivissimi complimenti anche xk non era un album facile...

ozzy(d) (ha votato 9 questo disco) alle 20:34 del 9 ottobre 2007 ha scritto:

gioventù sonica e colossale

Mi hanno sempre fatto venire in mente Carver, per il loro minimalismo sonoro. Quel carver che a propositodella propria scrittura, del suo procedere per sottrazione, era solito dire: “Altri scavano fino all’osso, io cerco di arrivare al midollo”. Ecco, loro sono arrivati al midollo della new wave. Imprescindibili.

fabfabfab (ha votato 9 questo disco) alle 16:06 del 10 luglio 2008 ha scritto:

Proprio proprio bella questa recensione. Magari rischio di dire una bestialità (Loson mi perdonerà), ma l'anno scorso è uscito un bellissimo disco di un gruppetto che si muove su queste sonorità: si chiamano PRINZHORN DANCE SCHOOL.

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 22:29 del 13 agosto 2008 ha scritto:

grazie di avermeli fatti scoprire loson! ne sono rimasto decisamente affascinato...disco incantevole e importantissimo, nient'altro da dire!