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8,5/10

Alice in Chains

Alice in Chains

10 aprile 1996. Gli Alice in Chains si esibiscono, dopo un paio d’anni di latitanza dal palcoscenico, per un concerto della serie Unplugged di MTV, consuetudine per le band di successo degli anni ’90, durante i quali l’emittente ha visto il rock alternativo come genere sul quale lucrare al massimo.

Layne Staley è letteralmente uno zombie. Divorato dall’eroina, è scheletrico, lo sguardo è totalmente assente, si confonde, è costretto a ricominciare i brani da capo perché sbaglia le parole e la sua voce è flebile e piatta per via di quella robaccia di cui è schiavo. Nonostante ciò, la sua performance è di un’emotività impressionante, tutti quegli ostacoli non gli impediscono di scaldare e commuovere il pubblico. Dopo questa data Layne si ritirerà gradualmente dalla vita pubblica, finendo per isolarsi dagli amici e dalla famiglia, rinchiudendosi in casa in compagnia unicamente del mostro oppiaceo. Solo e dimenticato, morirà senza farsi notare da nessuno il 5 aprile 2002 e il cadavere anoressico verrà trovato solamente due settimane dopo, già in decomposizione. Il destino ha poi voluto giocare a Layne uno scherzo, facendogli condividere la data del decesso con la big star di Seattle, che aveva imbracciato il fucile esattamente otto anni prima, col risultato che nel giorno dell’anniversario il ricordo di Staley viene puntualmente oscurato.

L’ultimo lavoro in studio del povero Layne è il terzo, eponimo, long playing degli Alice in Chains (preceduto pochi mesi prima dalla breve parentesi dei Mad Season), colloquialmente noto come Tripod - per via della presenza del cane mutilato di Jerry Cantrell in copertina, nonché di una fotografia di Frank Lentini sul retro – e secondo lavoro in studio registrato col bassista Mike Inez, subentrato al fuoriuscito Mike Starr (che andrà incontro allo stesso destino del cantante nel 2011).

Una novità dell’album è il cambio di produttore, con Dave Jerden che viene sostituito da Toby Wright, e questo si nota. Già in “Dirt” la mano della produzione era pesante, qui lo è ancora di più: le armonizzazioni vocali, marchio di fabbrica degli Alice in Chains, sono qui esaltate fino all’estremo, con una moltitudine di tracce registrate e sovrapposte che rendono quella di Staley una presenza spettrale. Il volume delle sei corde di Jerry Cantrell viene leggermente abbassato, anche in questo caso vengono registrate più tracce, generando un amalgama di distorsioni più annacquato rispetto ai riffoni memorabili delle varie We Die Young” o “Them Bones”, ma certamente efficace e più adatto all’atmosfera generale del disco.

In qualche caso l’iperproduzione dà ottimi risultati, come nella splendida e fangosa “Brush Away”, ma, soprattutto, nel capolavoro assoluto Head Creeps”, l’ultimo, allucinato e allucinante delirio firmato unicamente Layne Staley, una vorticosa e terrificante manifestazione di rabbia. In altri episodi si rivela dannosa, soffocando la potenza della bellissima “Sludge Factory” e, soprattutto, rovinando completamente “Frogs”. Nella sua versione in studio risulta una nenia amorfa di otto minuti, soprattutto per via dell’eccessivo carico di armonizzazioni che ne seppellisce completamente la melodia vocale. Sarà proprio l’“Unplugged” a rendere giustizia a “Frogs”, regalando una performance di Layne che mette semplicemente i brividi.

La seconda novità consiste nella rinuncia di Cantrell al ruolo di protagonista nella composizione dei brani, infatti quasi tutte le musiche sono cofirmate da uno o più colleghi, ed è autore dei testi solamente per “Grind”, “Heaven Beside You” e “Over Now”, delle quali è anche la voce principale, con Staley che si limita ai cori. “Grind”, traccia d’apertura e singolo apripista, è un micidiale e oscuro tritacarne degno dei migliori momenti di “Dirt”, quasi a voler mettere in chiaro che le meravigliose ballad di “Jar Of Flies” fossero solo una piccola fuga. “Heaven Beside You” è forse la canzone più ruffiana che il genio biondo potesse tirare fuori, ma sarà sicuramente stata almeno una volta un ottimo divertissement per gli appassionati della flanella che prendono in mano un’acustica nei momenti di noia. L’ultima traccia dell’album, “Over Now”, è totalmente sconnessa da tutte le undici precedenti. Non è brutta, anzi, tuttavia fa l’effetto di una ghost track piazzata lì per caso.

Again” è una perla che mette in mostra il lato più sfacciatamente pop del quartetto, con quel martellante riff di Cantrell e le armonizzazioni dissonanti accompagnati, quasi per scherzo, da dei “doot-doot” in falsetto. Segue a ruota la preziosa “Shame on You”, straziante grido d’aiuto di Staley, resa una gemma dalla chitarra di Cantrell, che nella strofa sembra voler rispondere ai lamenti del cantante.

La triade “God Am”, “So Close” e “Nothin’ Song” (specialmente quest’ultima) mette in mostra il talento alle bacchette del mai sufficientemente apprezzato Sean Kinney. Senza le sue pestate e il suo districarsi abilmente nei cambi di ritmo e tempo, gli Alice in Chains non sarebbero stati gli stessi.

We pay our debt sometime” è la frase di “Over Now” che fa da epitaffio a quest’album, che secondo alcuni è la pietra tombale di tutta la scena di Seattle. Per quest’ultima affermazione non vi può essere certezza, mentre una cosa è sicura: è il testamento artistico di Layne Staley e l’atto finale della prima fase della carriera degli Alice in Chains, la quale, grazie a tre LP e due EP splendidi, sarà anche l’unica a rimanere impressa nella memoria delle generazioni future.

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C Commenti

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zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 20:09 del primo ottobre 2019 ha scritto:

Disco fantastico, uno dei migliori colpi di coda del grunge che stava iniziando a entrare infase di stanca creativa. La rece e' ottima nel complesso; anche se dissento su alcuni singoli punti. Tipo non trovo niente di particolare in "again", che presenta un riff piuttosto standard (usato anche dai Paw in "Jesse"), mentre ritengo "Frogs" uno dei loro apici, con quella coda sospesa nel nulla e un Layne piu' stranito che mai. Anche "over now" ci sta bene, pezzo alla Jar of Flies che si sapeva avrebbero piazzato per equilibrare un po' l'anima elettrica e quella acustica.

PehTer, autore, alle 22:43 del primo ottobre 2019 ha scritto:

Grazie per essere passato zagor, immancabile quando si parla di rock anni 90

Immaginavo che il mio giudizio su Frogs potesse risultare singolare, è che proprio per me il divario fra studio e unplugged è enorme, Over Now, l'ho invece liquidata maluccio, managgia a me, potev ampliarne la descrizione. Sui Paw sono ignorante, il riff però a parte il palm mute non mi sembra troppo somigliante. Sono lieto del tuo giudizio complessivo.

P.S. per il Consiglio dei Ministri del sito: come mai gli oldies sono finiti in quell'angolo piuttosto infelice della home?

zagor (ha votato 8,5 questo disco) alle 11:07 del 2 ottobre 2019 ha scritto:

pensa che per me per Frogs si potrebbe benissimo parlare di post-rock (fatto bene pero'), con quel lungo arpeggio bronzeo e sinistro caricavano sul pulmino tutti i gruppi pallosi di quegli anni alla june of 44 o sigur mortis. Gli altri pezzi tutti clamorosi; il riff alla Iommi di Brush Away, la coda slabbratissima di Sludge Factory, i toni soul di Layne nel cantato di Shame on You; i singolazzi tipicamente cantrelliani Grind e Heaven beside you, di Head Creeps hai scritto tu (mastodonte di Layne)... etc etc....discone davvero.

Marco_Biasio alle 14:18 del 2 ottobre 2019 ha scritto:

A saperlo. Un mistero, purtroppo.

Utente non più registrat alle 10:29 del 2 ottobre 2019 ha scritto:

Ah una nuova recensione, ottimo Peter. Sul disco non mi pronuncio perché non me ne intendo.

PehTer, autore, alle 10:45 del 2 ottobre 2019 ha scritto:

Thanks Giorgio, visto che hai apprezzato molto Superunknown chissà, magari anche Alice può far breccia nel tuo cuore

FrancescoB (ha votato 7,5 questo disco) alle 14:00 del 12 ottobre 2019 ha scritto:

Mi accodo alle lodi di Zagor, sono giusto un filo meno entusiasta, ma questo rimane tra i dischi più brillanti del decadentismo grunge.