V Video

R Recensione

6/10

Stoned Machine

Human Regression

Il nome riporta subito alla memoria i più celebri Stone Sour, band parallela del cantante degli Slipknot Corey Taylor. E già il primo brano, “Intoxication”, conferma pienamente questa impressione: un muro di suono è perfettamente costruito dai pesanti effetti del chitarrista Mauro “Sampedro” Giorgi e sostenuti dall’impalcatura del basso di Filippo “Felipe” Petrini. La voce rauca e potente di Luca “Hernandez” Damassa si intreccia senza alcuna difficoltà, alternandosi in grida e vagiti profondamente hard rock. Ma dal primo brano, avanzando nell’ascolto canzone dopo canzone, è percepibile un cambiamento evidente di genere: dall’hard rock dei primi brani si arriva allo stoner di “Bed of sin”, che ha indubbiamente una grande influenza grunge, con sferzate e rallentamenti che ricordano gli Alice In Chains più metallici. Il rock di “Ocean” testimonia in pieno questo movimento da un genere all’altro, ricordando lontanamente nel sound i primi Pearl Jam, dai quali tuttavia la voce di Damassa si distingue chiaramente.

È a questo punto dell’album che viene quasi naturale chiedersi se gli Stoned Machine non intendano questo movimento da un genere all’altro come una regressione, quella regressione che viene appunto citata nel titolo dell’album, Human Regression. Ma il ritorno a una qualche atmosfera metal di “Shut up” costringe a ripensare questa facile interpretazione: cori e assoli di chitarra si intrecciano su una base sostenuta dalla ruvida e regolare batteria di Igor “Rosas” Rosetti, mentre ancora una volta la voce di Damassa tuona la carica con selvagge grida più da live che da registrazione in studio. Eppure l’ascolto di “Out of my way” riapre il dubbio: la chitarra elettrica si dilata acquistando distorsioni nuovamente grunge e anche la voce nel ritornello somiglia più a un lamento disperato che non alla violenza hard rock. Il power rock di “Fire in my hands” sconvolge ancora di più ogni certezza, ma è la seguente “Listen to the wind” a dare il colpo di grazia: un arpeggio di chitarra acustica viene accompagnato dal ritmo tribale dei bonghi, creando un’atmosfera quieta nella quale anche la potente voce del gruppo si adatta perfettamente sciogliendosi in un esercizio di sussurri e acuti, cori ed echi.

Ma “Listen to the wind” è solo un’estrema richiesta di aiuto, non c’è salvezza, non c’è nemmeno in questa calma la possibilità di un ordine nella confusione regressiva dell’album: ascoltare il vento che soffia senza poterlo domare. Con la finale title track, “Human regression”, la mancanza di linearità dell’album sembra trovare la sua definitiva sublimazione: un pezzo crudo, violento, lontano anni luce dalla parentesi del brano precedente. Non si tratta di un vero e proprio ritorno all’hard rock iniziale, ma di qualcosa a metà tra questo e lo stoner, con una batteria sostenuta e intensa, un basso vigoroso che dilata la ruvidezza degli effetti della chitarra in accordo perfetto con la voce, nuovamente dura e rauca. Poi cala il silenzio. E solo allora, nella pausa in cui il disco continua a scorrere a vuoto, ci si rende conto che una direzione di lettura dell’album effettivamente ci deve essere, perché compare come un miraggio la ghost track dell’album: una chitarra si apre sul silenzio in un arpeggio morbido ma elettrificato, come la coda perfetta per lasciare intravedere una speranza futura oltre la regressione dell’umanità. Come se tutta la rabbia confusionaria gettata nell’album, trovasse la quiete che per tutto il disco non ha mai neppure immaginato di poter raggiungere.

V Voti

Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 2 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
Teo 6/10

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.