The Cure
Faith
Una vita intera, come diciassette secondi, risucchiati dentro una foresta nella mente
Pochi eterni velocissimi attimi vissuti sospesi in aria, in apnea, nella penombra dellindifferenza degli eventi.
Non rimane che la fede, una consapevolezza sfocata, una confessione di fronte allo specchio, unabbazia fantasma nella quale rifugiarsi e pregare, mentre si cade giù, rimanendo immobili. Infine si annega, sprofondando nel dubbio più atroce. Eppure questo cupio dissolvi sembra quasi una consolazione.
Se Seventeen Seconds era laria, e Pornography sarà terra infuocata, Faith è lacqua. Un disco di una stasi realmente annichilente, che suona come impercettibili sussurri biascicati allalbeggiare. È il vuoto, è la stanchezza, tra la rinuncia e il lamento, è una profondità misteriosa come un anonimo utero senza fondo.
Robert Smith compone la sua opera più misantropica e buia, in un momento di estremo distaccamento dalla realtà.
Faith è unillusione dentro unillusione, una vita incastrata in un sogno, o forse in unaltra vita.
Faith è il vuoto prima dellinfinito. Morbosa fascinazione per limmobilità.
Il basso tenebroso di Gallup, ormai consacrato ad un chorus impietoso, si incarica di trascinare la musica, con il vano tentativo di riportarla allumano. Il narcolettico Tolhurst, con i suoi pattern ritmici testardamente elementari, è ormai un androide.
Due soli accordi minori della chitarra di Smith e il gioco è fatto: Holy Hour viene scossa da lontano dai rintocchi di una campana mentre la tastiera disegna la sagoma incerta di paesaggi sognati da unanima sepolta e il corpo continua a ciondolare sulla Terra, senza pace ma senza neanche voglia di lottare. Le liriche esprimono desolazione e avvilimento, ma anche un certo distacco:
Mi inginocchio
Ed aspetto in silenzio
Mentre le persone ad una ad una scivolano via
Nella notte
I corpi calmi e vuoti
Baciano il pavimento prima di pregare
Baciano il pavimento
E scivolano via....
( )
Mi alzo
E mi sento urlare
Un urlo inarticolato di potere ancestrale
Si spezza contro la roccia
Dolcemente ti lascio piangere...
Non riesco a trattenere ciò che divori
Il sacrificio della penitenza
Nell'ora santa
Nulla lasciava presagire un pezzo come Primary a seguito: stavolta le ritmiche si fanno serrate e gagliarde e il chitarrismo di Smith è molto più nervoso del solito. Un po quello che succede nellacre Doubt, che però vira quel post-punk abbastanza primitivo verso un sentiero più periglioso. Siamo nel solco di un minimalismo new wave oscuro ed enigmatico, come continua a dimostrare la diafana Other Voices, che torna a quella musicalità umbratile e suggestiva, piena di spazi apparentemente vuoti riempiti da un qualcosa che sembra mancare ma in realtà costituisce una presenza inquietante. Other Voices pare quasi una colonna sonora adatta ad una danse macabre che però manca volutamente di mordente gotico, soffocando i sinistri accordi di chitarra sotto un basso pungente che segue il ritmo di un tango della catastrofe, mentre il testo tratta di paranoia e nostalgia.
Si scende nelle profondità acquatiche di Faith, con All Cats Are Grey e The Funeral Party, tra le canzoni più eteree mai composte dai Cure, i cui versi continuano a dirigersi verso il delirio, la tristezza e la dolcezza insieme. Nella prima i tamburi che battono un tempo tribale al rallentatore ci spingono verso una dolce stato catatonico e di nuovo le tastiere ricoperte da spessi strati di ovatta e malinconia si muovono sensuali accompagnando come vestali Smith. Poi sopraggiunge la catalessi più profonda, a causa dei tappeti tastieristici soporiferi de La Festa Funebre. Il cuore rallenta inesorabilmente il suo battito, la musica si blocca in questo stato comatoso, tuttavia compiaciuta del suo procedere flemmatico attraverso i silenziosi cieli liquidi di un grottesco incubo.
Un geometrismo estremamente scarno ed essenziale caratterizza costantemente le canzoni di Faith: ci sono pochi gesti eclatanti e ritmi di una monotonia clamorosa. Eppure il risultato è magico.
Lapatia che soffoca i brani dellalbum e la loro freddezza emotiva spinge lascoltatore oltre la tristezza e oltre la paranoia, alla ricerca di una terra vergine dove cercare un volontario e probabilmente catartico intorpidimento.
Gli ultimi due pezzi sono i più mesti in assoluto dellalbum e tra i più deprimenti della produzione curesca. The Drowning Man è una lenta implosione, un progressivo e irrisolto torcersi allinterno del proprio buio mentale ricreato attraverso irreali pulsazioni ritmiche effettate e monotone frasi di chitarra perse in un oblio drogato, verso il centro di una spirale mortale.
Laltro, ultimo brano è la title track, tediata da corde svogliate e stanche che blaterano di linee musicali pigre e sommesse. Rimane solo la noia del vivere, e intanto Smith si sdoppia e leva lamenti rassegnati di fronte al suo stesso spettro.
Me ne sono andato via solo
Con nient'altro
Che la fede
Con nient'altro
Che la fede
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