R Recensione

6/10

Film School

Hideout

Non ci ha messo tanto Greg Bertens (sempre strafatto di sonniferi…ci riferiamo alla voce) a rifondare da zero i Film School. Ad affiancarlo ora troviamo Lorelei Plotczyk al basso, Dave Dupuis alla chitarra e James Smith ai tamburi. Solo l’anno scorso usciva il secondo album della band, a nostro avviso un po’ sottovalutato dalla critica. Il discorso era il solito: i Film School non sono altro che un onesto gruppo indie rock che si limita a rileggere il passato e basta, ancora alla ricerca di una vera identità. Noi invece andavamo pensando che questa vaghezza e questa inconcludenza si erano rivelate dei pregi. Post-punk notturno e insicuro, shoegaze dolente, indie pop narcolettico, depressive rock cresciuto sottopelle: i Film School erano tutto questo senza mai protendere con decisione verso una direzione.

Con Hideout si è fatto qualche passo indietro, nel senso che ora lo stile della band è meno personale (saranno soddisfatti i detrattori, se prima già pensavano che fosse fortemente derivativo). Non c'è un brano che si avvicini alla bellezza di Pitfalls o di Like You Know, e soprattutto non c'è niente di paragonabile alla splendida On & On, tutte canzoni sì opache in superficie ma dal cuore decisamente scintillante. In compenso abbiamo la melodia semplice e catchy (e indovinatissima) di Two Kinds e lo shoegaze da tunnel color crema di Compare, sconsolate canzoni sull’amore, la perdita e la sconfitta. Questi sono i due gioiellini dell’album.

Per il resto fanno presa soprattutto i primi tre brani (ovvero i primi due e il quarto, giacché la terza traccia, Meanmedian Mode, è un interludietto fissascarpe style brevissimo e inutile), Dear Me, Lectric e Sick Hipster Nursed By A Suicide Girl (!) in cui si prendono dei Jesus And Mary Chain resi più spettrali e sinistri e gli si fa fare un viaggio onirico verso un orizzonte sfocato attraversato da un miraggio darkwave, a cavallo di una batteria ciecamente dritta e un basso gonfio il giusto, più chiaramente gli strati di chitarre distorte e dilaniate dai feedback (che comunque non schiacciano mai la sezione ritmica).

Nel resto dell’album gli intenti sembrano più incerti e gli esiti sono meno convincenti. Da una parte il gruppo volge verso un pop alternativo con le solite palpebre stanche dall’altra verso una wave algida (quando non arida), dalle movenze ingessate. Dentro Plots And Plans ci vediamo sul serio i My Bloody Valentine, quelli “gioiosi” e inebetiti di Soon, ulteriormente narcotizzati.

What I Meant To Say riprende il piglio dei brani iniziali, aggiungendoci una bella dose di sensualità e di vitalità, tra il fracasso (mai veramente bastardo) delle chitarre e il rullante grasso sculacciato senza pietà su un ostinato ritmo post-punkeggiante: stavolta ci siamo.

Da grandi estimatori di queste sonorità, speriamo che Bertens trovi una alchimia ancora migliore con i suoi nuovi sodali per fare esplodere davvero il potenziale che è racchiuso nella sua musica.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Mr. Wave (ha votato 6 questo disco) alle 13:46 del 24 giugno 2008 ha scritto:

ho ascoltato l'album omonimo, e l'ho trovato un ottimo lavoro, ma ''Hideout'' no... dopo l'ascolto di quest'ultimo darò un voto

Mr. Wave (ha votato 6 questo disco) alle 12:56 del 21 marzo 2009 ha scritto:

Concordo in toto col recensore. Disco ideale per i nostalgici 'cronici', in quanto ottima parafrasi di varie esperienze musicali passate (shoegaze, new wave...), per la sostanza, invece, c'è un sensibile passo indietro, rispetto all'album omonimo del 2006. Al momento, il potenziale del gruppo resta latente e piuttosto dissimulato. Si attende la terza (!) prova...