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R Recensione

7/10

Alan Parsons Project

I robot

Saranno sufficienti trentanove anni dalla sua uscita per tornare a valutare serenamente “I robot”, seconda uscita dell’ Alan Parsons Project ? Il disco, pubblicato nel 1977, nonostante il successo commerciale riscosso, venne infatti rapidamente inserito nell’elenco dell’abiura dal movimento punk, agli albori in quello stesso periodo: un esemplare, insieme a tanti altri, di quel prog rock pomposo ed  orchestrale che rappresentava, nell’estetica do it yourself  del punk, il simbolo da gettare dalla torre. Disistima che l’autore dell’opera assicura ricambiata, anche a distanza di molti anni :”Non feci neanche caso al punk, dice Parsons, non ero minimamente interessato e cullavo il desiderio segreto  che anche il nostro pubblico la pensasse così. Penso che il punk fosse una cultura giovanile che non aveva niente  che fare con quella che io considero musica. Solo una scusa per suonare malamente hard rock”. Roba da far inorridire qualche generazione di musicisti e seguaci della filosofia punk, ma, tutto sommato, dichiarazioni comprensibili nella bocca di chi,  partito lavorando come assistente ingegnere del suono agli Abbey Road Studios nelle registrazioni di  “Let it be “ e Abbey road”, successivamente ha occupato il banco di regia di  “Dark side of the moon”. Il “progetto” di Alan Parsons, condiviso con l’autore (per Marianne Faithfull e altri) e pianista Eric Woolfson, nasce infatti con lo scopo di creare musica di alta qualità, mixando prog e pop, lasciando spazio alle passioni anche extra musicali dei due, e scegliendo il meglio di musicisti e cantanti frequentati negli anni di sala d’incisione, con una cura nel comporre il cast per ogni canzone che riflette la grande passione di Woolfson per il musical. Dopo l’esordio dedicato alle “Tales of mistery and imagination”, dello scrittore gotico Edgar Allan Poe, il secondo album “I robot” nasce come progetto dedicato al tema dell’intelligenza artificiale al centro del celebre romanzo di Isaac Asimov, contenente le tre leggi della robotica. L’idea iniziale è quella di mettere in musica alcune storie di Asimov sul tema dei robot, ma un contratto con esclusiva firmato dallo scrittore russo impedisce l’uso di contenuti e titolo del libro. Di qui la necessità di una lieve modifica rispetto al libro “I,robot” che, su disco, perde la virgola.

L’opera ascoltata oggi evidenzia alcune pecche, ma anche tanti aspetti meritevoli di un recupero. Se gli strumentali (“I robot”, “Nucleus”, “Total eclipse”) suonano gradevoli  ma mostrano tutta la polvere accumulata con il tempo, con i loro effetti elettronici oggi vintage, le canzoni sono invece degne di un ascolto non distratto. “I wouldn’t to be like you”, hit dell’epoca è un funky Chic – style che dovrebbe molto far meditare su corsi e ricorsi storici del rock, se lo immagina nella scaletta di “Ram dei Daft Punk, uscito giusto 37 anni dopo.”Some other time “, introdotta da un arpeggio acustico e subito “assalita” dalla gandeur del tema orchestrale e “Breakdown”, cantata in insolito ruolo del frontman degli Hollies Allan Clarke e con un coro finale molto floydiano, sono due eccellenti prog song. “Don’t let it show “ è una perfetta melodia da musical nella quale entra una progressione di accordi degna dei King Crimson prima maniera, mentre “The voice” affidata alle potenti corde vocali di Steve Harley, è una strana creatura che parte con riff jazz rock per poi mutare in un funk orchestrale. Infine, “Day after day (the show must go on), una ballad lassù fra le stelle, immaginata da un  Parsons in astinenza dai Pink Floyd. La storia insegna che dopo questo lavoro la carriera dell’ex ingegnere del suono s’ impennò fino a vette planetarie con numerosi album e hits (“Eye in the sky”) nel segno di un sempre più accentuato orizzonte sophisti-pop, con qualche caduta di gusto. All’epoca di questo disco, nel 1977, tutto doveva ancora accadere e la vena progressive del progetto pulsava vitale fra questi solchi. Ma non ditelo a John Lydon.  

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