A Low@Magazzini Generali - 28/11/2011

Low@Magazzini Generali - 28/11/2011

Generalmente si attribuisce una connotazione positiva all’imprevedibile ed una negativa al prevedibile. Il fatto è che il prevedibilmente-positivo lo aspetti e lo desideri così tanto che quando accade quasi non lo apprezzi più, mentre il prevedibilmente-negativo ti si abbatte sulla schiena con fredda e scientifica precisione. Quando imbocchi la Torino-Milano alle otto di sera, ad esempio, sorridi ebete e spensierato ma sai che al ritorno dalla città della Madunina, verso mezzanotte, non ci sarà proprio niente da ridere. Già nel viaggio di andata la nebbia è lì che ti aspetta. Serafica e bastarda si tiene a distanza di sicurezza, ti illude, si dirada lasciandoti passare mentre canticchi allegro come passerotto. In realtà incombe sul tuo destino come una punizione, stai viaggiando in un tunnel scavato nel fumo e sai già che al ritorno quel tunnel non ci sarà più perché la nebbia, per sua natura, scenderà.  

Prevedibile è anche Milano, perché prevedibili sono i suoi cambiamenti. Là dove c’era una panetteria ora c’è un kebab. Là dove c’era una trattoria ora c’è un ristorante giapponese. Là dove c’era un fabbrica ora c’è un’ex fabbrica. Prevedibili anche i Milanesi, che ormai sono uguali ai Torinesi (che vogliono sembrare Milanesi). Tutti schierati già alle 21:00 davanti ai Magazzini Generali, biglietto alla mano e faccia rilassata di chi non ha mai dovuto fare 160 chilometri in un buco scavato nella nebbia per vedere un concerto. In maniera altrettanto prevedibile ti porti a un paio di metri di distanza dal palco ma non vedi una mazza: hai poche persone davanti ma sono tutti più alti di te di un buon mezzo metro. Ma cos’è, una conferenza sul gigantismo? Un raduno di cestisti? Ci deve essere una spiegazione. Perché hai un’altezza nella media, durante la settimana. Dove si nascondono tutti questi spilungoni? Escono solo la sera, come i vampiri? Inizi a guardare il pavimento e pensi: “sta a vedere che ‘sti dementi hanno fatto il pavimento in salita”. Invece no, è che quelli che hai davanti sono molto più alti di te. Semplicemente. Che poi pure tu, benedetto ragazzone, sei alto come l’obelisco vaticano, che bisogno hai di metterti in prima fila? Tanto a quell’altezza il suono sarà sfalsato comunque, rimbalzerà sulle quattro pareti e poi, dopo mezz’ora, ti arriverà sotto forma di eco. La prossima volta mi porto dietro un Taser, te lo sparo sul nervo sciatico e ti accascio per terra.    

Imprevisto invece l’inizio del concerto dei Low, e non perché salgono sul palco come se fossero lì di passaggio (questo potevamo aspettarcelo), ma perché infilano in apertura due pezzi storici tratti dal loro primo album: “Lazy” e “Fear” si susseguono nel silenzio rapito degli astanti ribadendo il loro status (c’è un termine che possa esprimere un concetto più elevato di “capolavoro”?) e ricordando (coincidenza o marketing?) di tenere da parte un paio di pezzi da 10 euro per la ristampa di “I Could Live in Hope”. Se credevamo di conoscere la formula dei Low (due voci perfettamente bilanciate e armonizzate al servizio di un gospel “slow”), dal vivo l’ago della bilancia pende nettamente dalla parte di Alan Sparhawk: è lui a tenere banco, con la voce ma anche con la chitarra. Durante tutto il concerto si vedono le teste dei provetti chitarristi sparsi tra il pubblico sporgersi in posizioni sovrannaturali per carpire i segreti della Gibson di Sparhawk: il ponte, il tremolo, i pedali, l’amplificatore (che è piccolissimo ma ha un suono spaventoso). Se a volte prevale il consueto aspetto “corale” (“Monkey”, accolta con entusiasmo dal pubblico,“Last Snowstorm of The Year”) , spesso Sparhawk “se la canta e se la suona”, riempiendo i silenzi con una serie di note (stoppate, distorte…) come farebbe un bluesman di razza.  

Al centro del palco c’è comunque Mimì Parker, composta e professionale. L’impressione è che in famiglia le decisioni vere le prenda lei. Meno dotata dal punto di vista strumentale rispetto al marito, recupera grazie al carisma ed alla voce. Fra canti, cori e contro-canti non dimentica un passaggio, non sbaglia praticamente mai. Anche quando i pezzi rischiano di causare un calo di tensione (“Try to Sleep”), la sua capacità di armonizzare la sua voce con quella del marito rende speciale ogni singola nota. E non è un caso che – dopo alcuni bis doverosi (“Sunflower”, “On the Edge of”) sia proprio lei ad augurare a tutti la buona notte (“Laser Beam”) con una grazia così delicata che ti convinci che – fuori dalla porta – sia già arrivato il Natale, e che quando uscirai ci saranno i bambini che giocano con la neve, il profumo delle caldarroste e persone sorridenti ovunque. Invece fuori c’è solo la nebbia, qualche spilungone assonnato e un freddo mortale. Ma tu – imprevedibilmente – sei felice lo stesso.

 

foto@Marisella Latorre

 

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Filippo Maradei alle 17:49 del primo dicembre 2011 ha scritto:

Bel report, loro da vivo sono davvero speciali; imprevedibilmente, lo sono anche quando c'è casino intorno, è quasi estate e si è all'aperto (Primavera Sound 2011).